Federico II e la simbologia del potere imperiale: i castelli di Puglia

Federico II e la simbologia del potere imperiale: i castelli di Puglia

Un piccolo articolo scritto quando ero studente, oggi superato da nuovi ed importanti studi sulla stessa tematica...

Mi piace inserirlo perché ho avuto l'immenso onore di conoscere personalmente Reinhard Elze: ricordo quanto rimasi affascinato dalla sua figura di studioso ed intellettuale, ma così umano...

Pubblicato a stampa in: «Economia e potere» n. 1/95 pp. 39-43.
© edizione elettronica di Gianluca Lovreglio
© Gianluca Lovreglio 2000

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Puer Apuliae è l’epiteto più usato, e forse abusato, con cui gli storici nel corso del tempo hanno definito Federico II.

Senza dubbio, per il numero e la durata delle sue frequentazioni, appare questa la regione preferita dall’imperatore; ve n’erano d’altra parte ottime ragioni, essendoci in Puglia le riserve di caccia preferite da Federico.

I primi rapporti dello svevo con questa regione risalgono al 1220, poco dopo la “presa di possesso” del regnum meridionale e la proclamazione delle Assise di Capua.

Sin da allora, infatti, verrà accentuandosi la caratteristica principale della corte di Federico II, quella di essere una “corte itinerante”, nominalmente residente a Palermo, ma di fatto al seguito dell’imperatore impegnato, vuoi per impegni bellici, vuoi per affari politici, vuoi per la caccia o il diletto, al di fuori della Sicilia.

Subito dopo aver promulgato le assise, infatti, da Capua Federico andò vagando per il regno, di cui aveva imperfetta conoscenza, essendo vissuto fino allora in Sicilia e nelle terre germaniche.

«Indubbiamente rimonta a questo periodo il suo amore per la Puglia, la più orientale delle regioni della penisola» (ABULAFIA 1988, p. 119).

La corte dell’imperatore e la sua stessa figura, stupirono i contemporanei e in seguito gli storici che si sono occupati della sua personalità, soprattutto per l’uso spregiudicato e intelligente della cosiddetta “simbologia del potere”.

Ogni atto dell’imperatore, ogni particolare, ogni costruzione fatta in suo nome, dovevano significare ai contemporanei la forza e la potenza del sovrano, dovevano far capire che il potere imperiale discendeva direttamente da Dio, in polemica aperta col papato, sostenitore della sudditanza dell’imperatore al rappresentante di Dio in terra.

Da ciò quindi discende una serie di comportamenti e di atteggiamenti del sovrano impegnato a “promuovere” la sua figura in tutti i modi allora possibili, a cominciare dalla maniera di vestire.

Non tutta però, in questa concezione, era farina del sacco di Federico e dei suoi consiglieri: già i predecessori normanni avevano fatto un uso politico dei vestimenti regali, a cui Federico aggiunse quelli imperiali, incarnando la doppia eredità normanna e sveva.

Sono normanni ad esempio il mantello e la dalmatica di Ruggero II e l’alba di Guglielmo II, «le calze rosse, come pure il cinturone per la spada, conservati nel Tesoro di Vienna insieme alle insegne che Federico aveva ereditato da suo padre, la corona imperiale, la Sacra Lancia, la croce e la spada imperiale. Nel Tesoro di Vienna inoltre si trovano ancora una spada, dei guanti e delle scarpe, che aveva fatto fare Federico II» (ELZE 1986, p. 210).

L’abbigliamento, quindi, veniva inteso come un fatto politico, un mezzo per suscitare stupore e ammirazione e per incutere timore e rispetto.

Per dare un’idea delle persone che componevano la Magna Curia, la corte dell’imperatore, è utile analizzarne un po’ più da vicino la composizione.

Subito dopo l’imperatore veniva il connestabile (o comestabile), il capo supremo dell’esercito (non il comandante). È una carica ereditata dai normanni, che con Federico II diventa più onorifica che reale, una mera dignità di corte.

Seguiva l’ammiraglio (o admiratus), capo della flotta e soprintendente a tutte le attività (anche commerciali) che avvenivano nel mare o sulle coste.

Il logoteta, una carica ereditata dalla amministrazione bizantina, è una sorta di portavoce-ministro degli esteri. Unita alla carica di protonotaro, diventa un ruolo di primissimo piano all’interno della corte. Basti pensare che era questa la carica tenuta da Pier Delle Vigne, il più ascoltato e fidato consigliere di Federico II, vero artefice della politica imperiale.

Il camerario si occupava della “camera” del re, cioè del patrimonio personale del sovrano e delle entrate fiscali; ma si occupava anche della “camera” intesa nel senso fisico della parola, dell’amministrazione, dell’alloggio, dell’arredo regio. Il camerario aveva anche il compito di sovraintendere alla sicurezza personale dell’imperatore, ed era al comando della “guardia scelta”.

Federico II utilizzò per questa importantissimo compito soprattutto personale saraceno. La politica dell’imperatore nei confronti dei musulmani è stata certamente ambigua: dopo aver sterminato la gran parte dei saraceni di Sicilia, deportò i superstiti nella cittadella - lager di Lucera, in Puglia. I pochi musulmani rimasti si dimostrarono fedelissimi all’imperatore, che trasse da questa piccola parte di regnicoli la sua guarnigione personale.

Ma la corte di Federico era un mondo variegato e numeroso: oltre ad altre cariche “istituzionali” come quelle del cancelliere, del gran siniscalco, del maresciallo (o marescalco), dei notai di corte e di altri funzionari periferici, la Magna Curia era affollata da saltimbachi, ballerine, maghi, astrologi, falconieri ecc.

«Segni di potere e di sovranità erano anche gli animali feroci o esotici», che seguivano la carovana di corte, «che il sovrano possedeva, dei quali disponeva, e che certamente nessuno ha messo in mostra in modo più coerente, come segno di pompa e di potenza, di Federico II» (ELZE 1986, p. 206).

Ma l’imperatore non era l’unico a sfoggiare i suoi simboli: anche i suoi nemici, i comuni lombardi riuniti nella Lega, avevano il loro, già sperimentato anni addietro nella battaglia contro il nonno di Federico II, Federico I detto il Barbarossa.

Grandissima deve essere stata la soddisfazione di Federico II quando nella battaglia di Cortenuova, nel 1237, le sue truppe si impossessarono del carroccio di Milano. Dopo averlo fatto sfilare con l’albero piegato fino a terra trainato da un elefante a Cremona, lo inviò a Roma, dove venne conservato sul Campidoglio, trainato da muli, a scorno del Papa, alleato dei comuni.

Simile sorte toccò al carroccio dei Cremonesi, trascinato fino a Parma dagli asini (ELZE 1986, p. 208).

Ma c’è un altro aspetto, finora poco indagato, della politica della “propaganda” imperiale: le sfilate ed i cortei.

Quando l’imperatore appariva nei cortei solenni era accompagnato da elefanti, dromedari, cammelli, pantere, leoni, linci, orsi bianchi, leopardi, girifalchi, falchi bianchi ed altri animali esotici che destavano l’ammirazione degli spettatori. Da questo breve elenco di animali che nell’Italia meridionale del 1200 erano considerate vere e proprie meraviglie viventi, si comprende l’efficacia politica che un tale movimento di persone ed animali comportava in ogni paese toccato dalla presenza dell’imperatore.

«I leopardi e i falchi servivano per la caccia, come anche i cani dei quali vengono nominati espressamente alcuni molto grandi e feroci come anche quelli da salotto estremamente piccoli» (ELZE 1986, p. 206). Guardiani e custodi di tutti gli animali esotici erano i saraceni di Lucera, che in Alta Italia come in Germania «venivano spesso osservati con stupore non inferiore a quello che si aveva per gli animali esotici» (ELZE 1986, p. 207).

Federico II era insomma un ottimo propagandatore di se stesso, e riusciva ad usare i pochi mezzi di comunicazione “di massa” del tempo nel modo migliore.

Ma come far “pesare” la presenza dell’imperatore anche nei punti più reconditi del regno, e soprattutto, come rendere permanente questa presenza?

Una risposta può forse venire analizzando tutti i significati di quel sistema castellare che Federico II ha realizzato in tutto il regno, ma soprattutto in Puglia.

Dal 1220 in poi, attraverso successive legislazioni, l’imperatore fa in modo di essere l’unico a poter edificare torri, castelli e palazzi, facendo anzi demolire le fortificazioni dei feudatari che non hanno fatto in tempo ad inginocchiarsi ai suoi piedi giurandogli fedeltà.

Un elenco delle fortificazioni del regno ci è pervenuto grazie ad un documento del 1241-1246, conosciuto col nome di Statutum de reparatione castrorum, titolo errato per un documento che presenta i risultati di una inchiesta ordinata da Federico II basata su modelli normanni.

Sono circa 250 le strutture castellari censite (ma solo in parte ne sono interessate la Calabria e la Sicilia), e di queste 42 riguardano le circoscrizioni di Terra di Lavoro e del Molise, 43 il Principato e la Terra Beneventana, 31 riguardano l’Abruzzo, 11 la Calabria, 6 la Sicilia e complessivamente 111 la Puglia e la Basilicata, «in pratica poco meno della metà delle strutture del regno» (LICINIO 1994, p. 127).

Diverse sono, in ogni caso, le esigenze che hanno portato alla edificazione di queste opere fortificate: oltre che alla difesa, alcune erano dedicate esclusivamente alla residenza (Foggia), altre a fortini di caccia (Castel del Monte).

Stupisce il dato di presenza di strutture in Puglia e Basilicata: è stato calcolato che di tutte le strutture castellari inventariate in Puglia nell’età di Federico II, circa 30 sarebbero le opere completamente ricostruite, 20 quelle sottoposte a qualche ristrutturazione, e che durante tutta l’età sveva (1220 - 1266), sono stati ampliati o tenuti in efficienza 34 castelli preesistenti, e altrettanti ne sono stati costruiti dalle fondamenta (FUZIO 1981, pp. 152 e 167).

Questi dati sono però da ridimensionare; in realtà ben poche sono, in Puglia, le fortezze fatte innalzare completamente ex novo da Federico II: Foggia, Gravina, Apricena, Lucera, Castel del Monte (LICINIO 1994, p. 137).

Non cambia, però, lo scenario: ogni terra, ogni città demaniale era dotata, durante il regno di Federico II, di un castello o di un’opera fortificata, tale da venire a crearsi una fitta “rete” di castelli poco distanti l’uno dall’altro, collegati, per così dire, “a vista”.

Ecco realizzata l’“onnipresenza” dell’imperatore: il suo sistema castellare era sì efficacissimo per la difesa del regnum, un importante punto d’appoggio per le battute di caccia, ma soprattutto, si può dire, il castello doveva ricordare al suddito chi era e quanto valesse l’imperatore, doveva parlare della sua grandezza esattamente come le sue vesti e il suo seguito di animali esotici.

E la massima espressione della potenza dell’imperatore era anche la massima espressione della sua architettura: Castel del Monte.

«Il celebre arco di trionfo di Federico II a Capua con la statua dell’imperatore, o Castel del Monte che, come una corona di forma ottagonale, domina il paesaggio» (ELZE 1986, p. 209), per non parlare di tutte le altre fortezze da lui costruite, non lasciano dubbi: anche l’architettura, con Federico II, era un simbolo del potere, una propaganda che è continuata ininterrotta fino ai nostri giorni, e che ancora oggi ci parla di questo imperatore.

Abbreviazioni

FUZIO 1981: G. FUZIO, Castelli: tipologie e strutture, in La Puglia tra medio evo ed età moderna, a cura di C. D. Fonseca, Milano 1981.

ELZE 1986: R. ELZE, La simbologia del potere nell’età di Federico II, in Politica e cultura nell’Italia di Federico II, a cura di S. Gensini, Pisa 1986.

ABULAFIA 1988: D. ABULAFIA, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990 (titolo or.: Frederick II. A medieval emperor, London 1988).

LICINIO 1994: R. LICINIO, Castelli medievali. Puglia e Basilicata dai Normanni a Federico II e Carlo I d’Angiò, Bari 1994.

Bibliografia

Sicuramente troppo vasta per essere riportata in questa sede, la bibliografia su Federico II. Rimando perciò a quella, ottima, presente nel testo di ABULAFIA 1988. Per una trattazione specifica dei castelli dall’ età normanna a quella primo-angioina, indispensabile è il testo di LICINIO 1994.