35. Didattica della Shoa all'Archita

Il testo è stato pubblicato sulla rivista “Galaesus”, n. 35, Taranto 2013.

di Roberto Nistri

Alla realizzazione del Memoriale che ricorda gli italiani morti ad Auschwitz, voluto dall’associazione degli ex deportati, parteciparono negli anni Settanta grandi nomi della cultura. Due di loro, Primo Levi e l’architetto Lodovico di Belgiojoso, nei lager nazisti erano stati prigionieri. Il memoriale era stato pensato per parlare al cuore più che alla testa: il visitatore camminava nella claustrofobica spirale di Belgiojoso, leggeva il testo di Primo Levi, ascoltava Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz di Luigi Nono e guardava le tele simboliste di Pupino Samonà. Purtroppo l’installazione, già chiusa dall’estate 2011, ora rischia anche lo smantellamento, grazie al disinteresse del governo Berlusconi e all’ottusa ostilità di Piotr Cywinski, direttore del museo sorto nel campo (1). Forse per alcuni politici Auschwitz è qualcosa che riguardi solo la Polonia. Invece di celebrare il Giorno della Memoria nella data simbolo del 27 gennaio, quando le avanguardie sovietiche liberarono il primo campo di sterminio dove erano stati uccisi un milione e mezzo di ebrei (una data del calendario civile europeo trasferita nel calendario nazionale) sarebbe stato più istruttivo per gli italiani ricordare il 16 ottobre 1943, il giorno della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma con la complicità dei fascisti, una data nazionale. Così hanno fatto i francesi, dedicando la giornata alla memoria di quel 16 luglio 1942, quando da Parigi vennero deportati 13.000 ebrei e ne tornarono solo 25 (basterebbe la durezza di questi numeri, rigorosamente censiti, per mandare a ramengo le ciarle dei negazionisti). Senza ipotizzare omissioni malintenzionate, si conferma la perdurante superficialità e trascuratezza italica nei riguardi della “topografia sacra” della Shoah, considerando bastevole la rituale maratona televisiva del marketing memoriale .

Siamo sempre più convinti che, in barba alla retorica delle mille “agenzie di formazione”, la scuola pubblica rimanga l’istituzione principe della protezione della Memoria e della riflessione filologica sulla realtà della Storia, che non è un supermarket dove si possa pescare a caso. A questo proposito è bene evitare l’indebita confusione fra la Memoria, insostituibile serbatoio del pathos e del racconto, ma sempre liquida e selettiva (“la memoria è una formidabile falsaria”, ha scritto Antonio Tabucchi) e la certificazione della Storia, senza la quale i ricordi si sfaldano e diventano pasto per le jene della falsificazione. La memoria motiva l’attività storica, la storia corregge la memoria. I testimoni devono continuare a parlare, ma noi abbiamo il dovere di rielaborare le loro voci anche per misurarci con il presente. Perché da quella storia non siamo fuori, e con il suo codice di violenza occorre ancora fare i conti. Si continua a giocare con il pop razzismo e la caccia all’untore è sempre aperta.

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Da parte dei governi democristiani degli anni ’50 la preoccupazione prioritaria era quella di occultare piuttosto che svelare. Alla Germania di Adenauer si chiese di fare di tutto per insabbiare le indagini sul massacro delle Fosse Ardeatine: “Non appena il primo criminale di guerra tedesco verrà consegnato”, avvertì in una missiva un diplomatico italiano, “arriverà una valanga di protesta da ogni paese che richiede l’estradizione di criminali di guerra italiani”, per i misfatti perpetrati in Jugoslavia, in Albania, in Grecia. La complicità tedesca venne garantita e anche per questo i sopravvissuti alle stragi naziste ancora oggi attendono invano dalla Germania giustizia e risarcimento (2).

Negli anni del dopoguerra, nelle aule del Liceo “Archita” di Taranto, vigeva un motto residuale dell’ Ancient regime: “Qui non si parla di politica”. Un ingenuo lettore dei nostri giorni potrebbe pensare che, dopo la caduta di un governo dispotico e la conquistata libertà di parola e di pensiero, si sprigionasse una fame democratica di conoscenza e discussione. Naturalmente non accadeva nulla di tutto ciò: la scuola e anche la famiglia non erano disponibili a trasmettere alla generazione postfascista adeguati strumenti di comprensione riguardo l’ultimo tratto di strada, dalla sconfitta di una guerra scellerata alla occupazione degli Alleati. Per quanta riguarda la questione ebraica, su scala internazionale, fino ai primi anni Sessanta (il processo ad Eichmann è del 1962) quel passato prossimo che si chiamava Shoah abitava dentro silenzi e sguardi muti, volti che si giravano dall’altra parte. Una certa consapevolezza poteva maturare a Taranto solo nelle famiglie degli antifascisti e dei perseguitati politici, quasi tutti operai dell’Arsenale e dei Cantieri Tosi, data l’inesistenza di significative presenze antifasciste di estrazione borghese. Ma negli istituti superiori anche il termine “operaio” risultava sospetto. Professori e genitori condividevano un tacito agnosticismo, temendo che certi argomenti potessero turbare la normalità scolastica o costituissero addirittura un pericolo per l’ordine costituito (3). Quel corpo docente non era “cattivo”, era stato così costruito da una Storia: la storia di una Taranto “perla del Regime” e città “tre volte fascista”, la storia di una Liberazione e di un “altro dopoguerra” non comparabile con la tragica epopea della Resistenza armata al Nord, dove nel fuoco della battaglia si formava una nuova classe dirigente.

Le differenze politiche non furono solo quelle derivanti dal diverso carattere dell’occupazione angloamericana rispetto all’occupazione tedesca, anche quelle tra una parte d’Italia dilaniata dalla guerra interna tra fascisti e partigiani e l’altra , nel Sud, dove il sistema dei partiti si costituì con l’adesione in larga parte sospetta di Comitati di Liberazione che non avevano liberato nessuno: da una parte il cielo pulito di un nuovo Risorgimento, dall’altra una transizione alquanto vischiosa e gattopardesca, con il qualunquismo come stato d’animo endemico. Emblematica rimane la figura del Reduce, icona immortale di Eduardo De Filippo in Napoli Milionaria, con la sua smania di raccontare ma ridotto al silenzio dalla generale volontà di rimozione: nun penzammo a guaie. Tutte le scuole faticavano ad uscire dal cono d’ombra del Ventennio: quello era il personale, il sistema burocratico, il modo di pensare.

Nel liceo “Archita”, in particolare, aveva avuto modo di spadroneggiare una dirigenza “fascistissima” che fu autentico baluardo del Regime, nell’ora propizia per opportunisti zelanti, carrieristi nella scuola e nel giornalismo, acchiappamedaglie con poca fatica e a scapito dei perseguitati. Ma si può comprendere, sine ira et studio, come la vicenda postbellica, esaurito il vento del Nord, dovesse spingere il paese verso una democrazia fragile e paurosa, ancora inquinata dalla permanenza dell’autoritarismo dentro le istituzioni, dentro lo Stato, dentro le persone, sempre nella puerile attesa di “uomini della provvidenza”. Bisognerà attendere don Milani e il ’68, perché un giovane potesse di nuovo sentirsi “cittadino sovrano”. Gli anni ’50 e ’60 trascorsero onorevolmente, fra studi certamente severi e ampi spazi per la goliardia. Non mancavano spunti di “maccartismo” nei confronti di due docenti di storia e filosofia, i fratelli Luigi e Raffaele Trento, tenuti d’occhio per i loro trascorsi antifascisti: due schietti liberalsocialisti ma etichettati tout court come comunisti, perché erano gli unici a far studiare in classe la Costituzione, introdotta ufficialmente nelle scuole solo negli anni Sessanta e largamente ignorata per “mancanza di tempo”.

Non mancavano iniziative extracurriculari come giornali studenteschi e “Cenacoli” interni e anche esterni all’Istituto (4). Il biglietto da visita del liceo era l’annuario “Galaesus”, dalla periodicità non sempre costante, ma fedele ad un format abbastanza paludato nei contributi dei docenti come degli allievi: una sorta di bollettino della vita d’Istituto che non doveva travalicare certi confini. Ancora nel fascicolo VI del 1975, il preside Tommaso Pignatelli avvertiva che “non è intendimento della presidenza, né è istituzionalmente possibile, trasformare la presente pubblicazione in autentica rivista culturale”. Tali preoccupazioni dovevano condannare Galaesus ad una grigia sopravvivenza, considerando la condizione particolarmente surriscaldata della Scuola in quegli anni (5). Nel decennio ‘75- ‘85 si avvertivano alcuni segnali di apertura al “mondo esterno” (memorabile la battaglia in difesa del fiume Galeso) pur dovendo attendere la fine del secolo per far circolare nella scuola alcuni segnali di presenza sul territorio della Grande Industria.

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Negli anni Ottanta, sotto la presidenza di Franca Schembari, l’istituto si aprì decisamente alle istanze del territorio (in quegli anni “territorio” era la parola magica per rendere la scuola centro propulsore delle dinamiche civili, magari collaborando con “Italia nostra”, con la Sovrintendenza ai beni culturali, con gli “Amici dei musei”. La rivista “Galaesus” ampliò di molto il ventaglio delle collaborazioni, con il concorso di ex alunni. Nel fascicolo XI un gruppo di studenti della III D si impegnarono in un lavoro collettivo, Educazione civica, storia locale, metodologia della ricerca, focalizzando le questioni concernenti la vicenda del fascismo a Taranto, imparando a scrivere su ciò che non è già conosciuto, senza rimasticare cibi precotti. Per la prima volta venne affrontata la storia municipale usando il metodo della ricerca scientifica (senza la quale la storia si riduce a retorica) consultando i documenti presenti negli Archivi di Stato di Lecce e di Taranto , dove forse si conserva ancora tale ricerca).

In “Galaesus” XVI (1991-1992) si presentava un corposo dossier, Il sonno della ragione genera mostri. Riflessioni sul razzismo. Si trattava di una lettura ragionata del materiale documentario, fornito dalla stampa, sulla tragica escalation delle manifestazioni di razzismo in Europa e in Italia (dall’austriaco Haider alla Lega Nord) durante tutto il corso del 1992, annus horribilis. Gli studenti avevano anche partecipato ad una manifestazione promossa dall’Arci di Taranto, in occasione della presentazione del libro di Laura Balbo e Luigi Manconi, I razzismi possibili. Nell’anno successivo “Galaesus” rendeva conto della relazione Il razzismo: dalle definizioni alle forme individuali e di gruppo, tenuta dal sociologo Nino Aurora all’assemblea studentesca del 30 gennaio 1993, coordinata dal prof. Roberto Nistri. In “Galaesus” XVIII (1993-1994) la prof. Adalgisa Villani presentava un saggio sull’Etnocentrismo mentre la prof. Loredana Flore inaugurava un progetto sulla Cultura della non-violenza.

In occasione del 50° anniversario della Liberazione, “Galaesus” XIX rendeva conto di un intervento sulla Resistenza di Roberto Nistri, una ricerca sulla memoria orale, La guerra e il ricordo, a cura della prof. Giovanna Percaccio, una relazione dell’alunna Giovanna Carofiglio su Razzismo e antisemitismo. Di rilievo la manifestazione del 15 maggio 1995, nel Salone di rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale, curata dal prof. Francesco D’Elia: La Resistenza narrata attraverso i canti.

1995-1996 La scuola promuoveva il progetto Educazione alla mondialità (coordinatrice prof.

Loredana Flore. Sotto la presidenza di Tommaso Anzoino, nel 1996-97 la prof. Adalgisa Villani curava un importante corso di aggiornamento su Cultura, alterità e linguaggio con docenti dell’Università di Bari: Francesco Fistetti, Augusto Ponzio, Patrizia Calefato, Susan Petrilli (atti in “Galaesus” XXI). Il 18 dicembre 1997 la scuola ospitava Elisa Springer, scrittrice sopravvissuta ai campi di sterminio. In “Galaesus”XXII, sulla scorta del romanzo La storia di Elsa Morante, si ragionava sul fascismo commentando un diario di vita scolastica, compilato dal piccolo Antonio Amatulli quando frequentava la quarta elementare nel 1931/32 a Mottola. Nel fascicolo XXIII (1998-99) gli allievi, coordinati dai docenti Mario Bosco, Maria Pia Intelligente e Roberto Nistri, presentavano una robusta trattazione dell’Olocausto: Le persecuzioni razziali e i campi di concentramento. Nel maggio del 2000 la scuola organizzava un incontro con il partigiano Angiolo Gracci, comandante della brigata “Vittorio Sinigaglia”.

La riflessione su fascismo e razzismo si arricchiva nel 2000-2001 con un cineforum sul ventennio mussoliniano, con l’incontro con l’ufficiale tarantino Alfredo De Stefano, uno dei pochi superstiti della tragedia di Cefalonia (4 aprile 2001) e con Leone Fiorentino, deportato ad Auschwitz (26 aprile 2001) con un vasto corredo di scritti sul Giorno della Memoria. Nell’anno seguente veniva proposto un altro cineforum sull’Italia in guerra, con un cospicuo progetto interdisciplinare guidato da Loredana Flore: Educare alla pace, alla memoria, alla legalità. Nel 2002 allestimento di mostre fotografiche, incontri con Amos Luzzatto, presidente delle comunità Ebraiche Italiane e con il regista tarantino Emidio Greco. Dicembre 2002: nel Giorno della Memoria incontro con Vitantonio Leuzzi e Francesco Terzulli, rispettivamente presidente ed esponente della Società Italiana degli studi sull’Antifascismo e l’Italia contemporanea. 17 marzo 2003: dibattito organizzato nel Salone della Provincia su La memoria della Shoa, con Clotilde Pontecorvo, esponente della Comunità ebraica di Roma. Perché ricordare? Con contributi di docenti interni ed esterni.

Il fascicolo XXVIII rende conto del lavoro coordinato da Roberto Nistri e Francesco Terzulli sull’internamento fascista in Puglia, e le polemiche su antisemitismo e antisionismo. Il 27 gennaio 2005 viene proiettato il film Rosenstrasse di M. Von Trotta. Il Giorno della Memoria 2006 venne dedicato a Elisa Springer, con la conferenza di Francesco Terzulli: Una memoria femminile della Shoa. Da segnalare anche l’incontro con la deportata Mirella Stanzione. Terzulli collabora anche al fascicolo XXXI di “Galaesus” (2006-2007) con un corposo saggio su Primo Levi, mentre l’anno successivo don Franco Mazza commemora la figura di Etty Hillesum. Nel 2010 la giornata della memoria venne dedicata da Roberto Nistri al Porrajmos: lo sterminio degli zingari nella notte più buia del Novecento. Il 26 gennaio 2011 Francesco Terzulli e Giuseppina Cacudi hanno relazionato ampiamente su Ebrei in Puglia negli anni ‘40. Come provvisoria conclusione segnaliamo il progetto “Cultura della Memoria” curato dalle professoresse Loredana Flore e Adalgisa Villani, con la collaborazione della docente Francesca Poretti: il 27 gennaio 2012 Daniele De Luca, Docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università del Salento, ha relazionato nel Salone di Rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale sul tema Alle radici della Shoah. Dall’antigiudaismo all’antisemitismo.

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Questa quasi completa rassegna della produzione culturale del liceo “Archita” sulla tematica della Shoah dal 1992 al 2012 (un impegno storico che supera nel tempo il ventennio fascista) può essere intesa come una sorta di riscatto, un impegno onorato nella volontà di cancellare le pagine nere delle leggi razziali che appestarono tutte le scuole dell’epoca, ma è soprattutto il riconoscimento di una elaborazione culturale, in chiave rigorosamente costituzionale e repubblicana, che ha coinvolto senza soste generazioni di studenti, gruppi di docenti, artisti e operatori culturali, con spirito di generosa collaborazione. Consideriamo di altissima qualità il materiale documentario accumulato, che dovrebbe essere immesso in rete anche con il patrocinio delle pubbliche amministrazioni. C’interessa sottolineare il peculiare esprit che ha caratterizzato questa operazione cognitiva che, quasi istituzionalmente, a pieno titolo si può considerare una solida tradizione nella vita d’Istituto : il principio che la vera cultura è sempre battaglia culturale, contro l’indifferentismo, la mistificazione, l’assassinio della memoria. Vale l’imperativo categorico del Non mollare, la costruzione di Materiali Resistenti contro l’industria della dimenticanza organizzata, quella che George Steiner definisce la civiltà ad amnesia programmata. La lotta per la verità è la passione di Sisifo, la fatica di ricominciare sempre da capo. Il nemico è sempre all’attacco, soprattutto da quando si è sdoganata la liberalizzazione selvaggia del mercato della memoria (equivalente dell’universale mercato del lavoro). La cultura del cosiddetto Postmodernismo, sostenendo che non contano i fatti e che tutto è interpretazione ( ermeneutica si dice nel linguaggio culto) ha funzionato come alibi per le cause più strampalate e malintenzionate: tutto fa brodo per tenere in piedi una volgare politica-spettacolo televisiva, facendo audience a spese di una Storia imprigionata in una corrida di lazzi e pernacchie (6).

Per fortuna questa filosofia è in fase di deperimento pressocchè ovunque, dall’Europa agli Stati Uniti, grazie al ritorno di un sano Realismo che restituisce alla storiografia le sue buone ragioni. Senza l’accertamento dei fatti, senza la filologia, la storia sarebbe solo retorica, bassa cucina della menzogna per i negazionisti dell’Olocausto, i maldicenti del Risorgimento, gli spregiatori della Resistenza e della Costituzione. Dai tempi di Lorenzo Valla, che denunciò il grande falso che giustificava il potere temporale della Chiesa, la filologia primeggia come imbattibile arma della verità e smascheramento dell’impostura. Concedere una patente di buona fede ai negazionisti dell’Olocausto sarebbe come permettere ai teorici della della Terra Piatta di condizionare il corso degli studi di astronomia. Dovremmo seriamente discutere l’ipotesi che nei campi di concentramento nazisti non venne mai ucciso alcun ebreo, e che i pochissimi che vi morirono spirarono per infarto del miocardio, dato che – come celia Umberto Eco – le SS li nutrivano con cibi ad alto contenuto di colesterolo? (7).

La riflessione sulla Shoah, sui massacratori e i loro epigoni, offre ai giovani una straordinaria occasione per misurarsi con il problema massimo, quello del Male: a nulla vale ripetere l’esorcismo del Mai più se questa “aiuola che ci rende tanto feroci” è sempre l’universale bellum omnium contra omnes, dalla prepotenza del bulletto alla sopraffazione del despota: homo homini lupus. L’Olocausto è una incancellabile lezione dove vittime, carnefici e testimoni entrano in scena illustrando il peggio, e il meglio, di cui gli esseri umani sono capaci. La “banalità del male” è il tema suggerito da Hannah Arendt a proposito del processo ad Eichmann: una formula accattivante, ma anche fuorviante, considerando che il tema di gran lunga più intrigante è quello della “seduzione del male”, dal Faust al Grande Inquisitore (8).

La dimensione smisurata dell’Olocausto conferisce al massacro degli ebrei il carattere della straordinarietà e della esemplarità: un paradigma imperituro. Ma proprio il vortice dei numeri può essere un rischio per la didattica della Shoah; si ha bisogno di recuperare un punto di vista sulla singolarità: un corpo, un viso, un nome che non si perda nel delirio nazista della quantità. In Schindler’s List Spielberg si è cimentato con la doppia distanza della persecuzione di massa e del dettaglio singolare. In un film girato in un gelido bianco e nero, ha adottato l’ espediente di orientare il nostro sguardo su una bambina dal cappotto rosso, tirata fuori dal mucchio per due volte, come deportata e come buttata nella carretta degli ammazzati, una figura adottata come rappresentante della totalità sofferente. Adriano Sofri ha colto un’analogia con l’episodio di Cecilia nel capitolo XXXIV dei Promessi sposi. Nel “tristo brulichio” dei corpi abbandonati fra cortei di monatti e carri colmi di sacchi funebri, lo sguardo di Renzo si fissa su un oggetto singolare di pietà: la piccola Cecilia con un vestito bianco, portata dalla madre al carro dei monatti e accomodata su un panno bianco. Nel film e nel romanzo l’intento di individuazione pone quasi una coincidenza fra il cappottino rosso e il vestitino bianco. In una pagina de I sommersi e i salvati di Primo Levi si racconta che fra i cadaveri di una camera a gas si trovò una ragazza ancora viva e di fronte all’immagine di questa persona quegli uomini abbruttiti rimasero attoniti e rispettosi come i “turpi monatti” manzoniani. Secondo Sofri la fugace citazione di Primo Levi è stata forse la cerniera fra il nostro Manzoni e Steven Spielberg, improbabile lettore dei Promessi sposi ma certamente lettore de I sommersi e i salvati. Piace pensare che le cose siano andate così (9).

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1. Un delitto italiano

La Shoah è (anche) un delitto italiano: il più vergognoso della nostra storia. L’Italia è stato il solo paese d’Europa in cui un re, legato dal giuramento alla protezione dei suoi cittadini, ha firmato le leggi razziali, mettendo gli ebrei nelle mani dei persecutori. Poteva resistere e non firmare? Certo che poteva. Lo ha fatto il presidente fascista del Parlamento bulgaro, Dimitar Pesev, persuadendo il suo re a non firmare, fermando così la persecuzione nazista. Nessun ebreo bulgare si trovava ad Auschwitz quel 27 gennaio. Ma c’erano i superstiti 1017 cittadini ebrei di Roma. Onore a quei militanti fascisti come Giorgio Perlasca in Ungheria e il questore Giovanni Palatucci di Trieste che, timbrando firme e documenti falsi hanno salvato tante vite. Si poteva fare. Bastava avere l’animo. Altrimenti ancora oggi ci si potrebbe imbattere in una insegnante capace di ridere con i ragazzini per una barzelletta, come è capitato il 18 dicembre 1999 alla figlia della signora Leda Levi: “Come entrano trenta ebrei in un baule? Semplice, in cenere”.

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1) P. FANTAUZZI, Ad Auschwitz un’Italia senza memoria, in “Venerdì di Repubblica”, 6 aprile 2012. Forse anche la Giornata della Memoria è in affanno, anche se ha esteso enormemente la sensibilità sulla Shoah. Indiscusso appare il successo dell’iniziativa sul piano delle celebrazioni e della produzione editoriale, ci si comincia a interrogare sull’efficacia di un anniversario sempre più schiacciato sul “marketing memoriale”. Un consumo veloce e rassicurante. “Una storia usa-e-getta, piegata a un utilizzo autoassolutorio piuttosto che un’indagine perturbante dentro l’orrore che ancora ci appartiene. Un martirologio che rischia di rimanere muto sulle inquietudini del presente” Una data riferita a qualcosa che è accaduto altrove rischia di diventare una non-data, un’occasione di riflessione metafisica, togliendole storia (D. BIDUSSA in S. FIORI, Ricordare stanca, in “la Repubblica”, 26 gennaio 2011).

2) Secondo lo storico tedesco Felix Bohr i governi democristiani sostennero tale linea per non ravvivare la memoria della Resistenza, guidata soprattutto dal Pci, loro avversario politico; cfr. Roma chiese ai tedeschi di insabbiare le indagini sulle Fosse Ardeatine, in “la Repubblica”, 16 gennaio 2012 e Da Marzabotto a Stazzema massacri ancora senza giustizia in “la Repubblica”, 4 febbraio 2012. Sulle colpe dei fascisti italiani, cfr. S. FIORI, Il volto feroce dei nostri soldati, in “la Repubblica”, 14 aprile 2005 e Misfatti d’Italia,in “la Repubblica”, 3 maggio 2005; cfr. anche il documentario La guerra sporca di Mussolini su History Channel.

3) Si consideri che ancora il 27 maggio 2010, presso l’Istituto “Belli” di Roma, gli studenti improvvisarono, alla fine di un concerto, le note di Bella ciao davanti ai rappresentanti del ministero dell’Istruzione, pensando di fare cosa gradita e invece scatenando la reazione indignata della preside per tale “atto deplorevole”, uno “sconcertante episodio” che ha gettato “un’ombra di discredito difficile da dissipare, che ha messo in difficoltà la scuola nel suo complesso”, “assumendo iniziative che travalicano i limiti dell’opportunità, della correttezza e del buon gusto”, con conseguente invito ai genitori di scusarsi (cfr. “la Repubblica”, 2 e 7 giugno 2010). Forse la preside si è ricordata che già nel 2002 Marco Tedde, sindaco di Alghero del centrodestra, aveva vietato di suonare Bella ciao alle manifestazioni del 25 aprile (cfr. “Il Giornale”, 22 aprile 2008). Se una canzone quasi istituzionale, un canto di partigiani senza colore politico, in cui si possono riconoscere i democratici di ogni colore politico e le istituzioni nate dalla Resistenza e dalla Costituzione, ha potuto suscitare una tale buriana, questo dipende da un clima generale di misconoscimento e snaturamento della storia d’Italia, con ricadute polemiche volte a sviare il senso degli eventi. Riemerge periodicamente una pedagogia tartufesca, ostile al libero dibattito e impossibilitata a formare giovani “cittadini sovrani”.

4) Cfr. F. TERZULLI, La scuola a Taranto tra ricostruzione e accesso di massa (1944-1965), in AA.VV., Taranto dagli ulivi agli altiforni, II tomo, Taranto, 2007, in particolare pp.125-147.

5) Cfr. F. TERZULLI, La Scuola negli anni Settanta: un fortino assediato, in AA. VV., L’età dell’acciaio, Taranto, 2011.

6) Sul nuovo Realismo, vedi U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, 1990; Kant e l’ornitorinco, Milano, 1997, M. FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Bari, 2012. Articoli: M. FERRARIS, L’epistemologia è viva, in “Repubblica”, 6.1.2011, Postmoderni o neorealisti? In “Rep”, 19.8.2011. Anche E. DOCX, Così tramonta il postmoderno, in “Rep”, 3.9.2011; G. DESANTIS, Eco e Putnam, in “Rep”, 22.11.2011; D. MARCONI, Il postmoderno ucciso dalle sue caricature, in “Rep”, 3.12.2011; V. SCHIAVAZZI, Su Verità e realismo, in “Rep”, 6. 12. 2011; F. D’AGOSTINI, Realista e impegnato, in “Rep”, 7.12.2011; U. ECO, Il realismo minimo, in “Rep”,11. 3.2012; M. GOTOR, Che cos’è la verità storica, in “Rep”, 5.1.2012.

7) U. ECO, “ Ma come sono morti allora quei sei milioni? Di Aids? Di influenza cinese? Per aver riso troppo come Margutte?” in La Bustina di Minerva, Milano, 2001, p. 45. Cfr. V. PISANTY, L’irritante questione delle camere a gas, Milano, 1998. La malatelevisione ci ha abituato al professore showman, per il quale la storia è performance, spettacolo: bisogna sorprendere il pubblico con la battuta eccitante, il contenuto è secondario e la verità ha uno statuto negoziabile. La malapolitica insegna che bisogna presentarsi sempre con un tono bellicoso e inutilmente aggressivo, improntato al più grande disprezzo verso quanti la pensano diversamente. La battaglia per la verità rimane quella degli umanisti rinascimentali: “furono i primi a impiegare le proprie conoscenze per denunciare la falsità di alcuni documenti, artatamente costruiti e utilizzati per assicurare la stabilità del potere” (A. ASSMANN, Così la Storia ha ritrovato la sua Memoria, in “La Stampa”, 27 gennaio 2010).

8) Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e spontaneamente ci pensiamo “buoni”, escludendo di poterci trasformare in carnefici, cosa invece possibilissima, come leggiamo nel libro di Philip Zimbardo: L’effetto Lucifero, Milano, 2008. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non per predisposizione innata ma per il “sistema di appartenenza” e la “situazione” in cui ci si viene a trovare: c’entra non l’indole, ma il “ruolo” e la “circostanza”. Non basta osservare l’orrore, per rifiutarlo. Bisogna capire come funzionava la macchina: quegli uomini non erano nati crudeli, lo sono diventati. La vera resistenza è quella che si esercita nei confronti del proprio sistema di appartenenza che ci chiede, in ultima istanza, se stare o non stare al gioco. Il pilota americano che sganciò la bomba su Hiroshima ebbe solo a dire: “quello era il mio lavoro”; cfr. U. GALIMBERTI, Siamo tutti figli di Eichmann?, e S. NIRENSTEIN, Non esiste la banalità del male in “la Repubblica”, 12 marzo 2008 e 14 gennaio 2010.

9) Cfr. A. SOFRI, Spielberg, Manzoni…, in “la Repubblica”, 20 febbraio 1999. Gli storici hanno una grande responsabilità. Forse non sono riusciti a costruire una storia problematica e al contempo popolare, senza cedere al modello televisivo con le sue rivisitazioni fantasiose. Il vero rischio è quello della memoria rassicurante: consiste nell’osservare con raccapriccio ciò che accadde allora, rallegrandoci in fondo che oggi quella tragedia non stia capitando a noi. Quello che dobbiamo ricordare è che, mentre qualcuno attraversava l’orrore, c’erano milioni di persone che voltavano altrove lo sguardo. Anche oggi “non ci accorgiamo della crudeltà che accompagna le espulsioni o le vite violente nelle periferie: c’è un lato brutale della nostra quotidianità che abbiamo deciso di espellere dallo sguardo”; D. BITUSSA, cit