Quando i Musulmani eravamo noi tarantini

Quando i musulmani eravamo noi tarantini

di Gianluca Lovreglio

(già edito a stampa in "Voce del Popolo", anno 7, numero 25, del 20 dicembre 2009, pp. 34-36).

© Gianluca Lovreglio 2009. Tutti i diritti riservati. E’ vietata la riproduzione totale o parziale senza autorizzazione dell’autore

Una storia conosciuta dagli studiosi, molto meno da molti di quei tarantini che amano ancora definirsi figli della Magna Grecia, o, peggio, degli "spartani". Taranto fu, per un quarantennio, un caposaldo saraceno di dominatori bérberi, un avamposto dell'Islam di allora nel cuore dell'Europa post-romana, ufficialmente cristiana, ma ancora attraversata dalla sferza energetica e dalle divisioni delle popolazioni germaniche che vi si erano insediate già da una decina di generazioni. Che i musulmani fossero un pericolo reale, ne era cosciente persino l'imperatore Lotario I, che nel capitolare dell’846 “de expeditione facienda contra Saracenos”, confermava l’urgenza di porre termine allo stato d’insicurezza e di terrore diffuso dalle incursioni musulmane nelle indifese popolazioni del centro-sud dell’Italia. Qualche decennio prima era infatti niziata la penetrazione saracena in Italia meridionale: una guerra di aggressione che infiammava in Sicilia, strappata gradualmente ai Bizantini con l’occupazione di Palermo (831) e Messina (843). Anche a Taranto l'inizio del IX secolo fu caratterizzato dalle lotte interne e dalle asperrime divisioni che indebolirono ulteriormente il potere longobardo. Nell'840 un principe longobardo di Benevento fu tenuto prigioniero a Taranto, ma alcuni suoi sostenitori lo liberarono, lo riportarono a Benevento e lo proclamarono principe. Alla fine, la questione dirimente era proprio questa: la guerra civile tra Siconolfo e Radelchi per il controllo del ducato di Benevento. Entrambi i rivali utilizzarono i Saraceni per distruggere l’avversario (Khalfūn di Libia assoldato da Radelchi contro Capua; Apolaffar a sua volta vincitore, per conto di Siconolfo, alle Forche Caudine), e questo comportamento aveva prodotto quella disgregazione politica in cui si inserivano a meraviglia i piani espansionistici dei bérberi. Taranto, in quanto centro importante per il controllo delle rotte ioniche e punto di espansione nell’entroterra pugliese, era uno snodo essenziale. Fu per questo che subì nell’840 l’assalto di Saba e delle sue bande. Identica sorte ebbe Bari ad opera di Khalfūn che nell’847 vi istituì un emirato, la cui importanza fu direttamente proporzionale allo stato di confusione e debolezza che le controversie dinastiche avevano prodotto nella Langobardia minor (il nome che veniva dato ai domini longobardi dell'Italia centro-meridionale).


Ma chi erano e da dove venivano i conquistatori islamici di Taranto? Si trattava di Aglabiti di Qairawān, in Tunisia, molto determinati nel tentativo di trasformare politicamente delle semplici incursioni piratesche (che erano la norma, nel IX secolo) in un disegno strategico unitario. La libertà d'azione degli Aglabiti e dell’emiro Al-Aghlab era legittimata dalla autorità suprema del califfo abbasside, in quanto si esprimeva nell’ambito dell’unità politico-religiosa che teneva in Baghdad il suo centro istituzionale. Procediamo per gradi. I principi longobardi Radelchi e Siconolfo, rivali per il controllo del ducato beneventano, avevano scatenato una lunga guerra che impiegava i Saraceni stanziati nel sud della penisola. Entrambi sottovalutarono capacità e aspirazioni di tali mercenari. Fu proprio il bérbero Khalfūn, alleato di Radelchi, a volgere a proprio vantaggio il vuoto di potere che si venne a creare tra i domini longobardi. Dapprima si impadronì di Bari: nel volgere di pochi anni consolidò la sua posizione sull'intera Puglia centromeridionale e sulla Basilicata, al punto tale da rendere vano il tentativo dell’imperatore Lotario I (852) di riportare il territorio al suo controllo. Fu solo nel 864 che l’emirato di Bari, guidato dal suo terzo ed ultimo emiro, Sawdan al-Mazari, chiese ed ottenne, col titolo di walì, il riconoscimento da parte del Califfo di Baghdad di stato autonomo all’interno dell’impero islamico. Taranto al contrario, pur essendo stata occupata per prima, non risulta avesse una struttura statuale, ma questo dato potrebbe essere falsato dalla mancanza di fonti storiche a riguardo. La città jonica fu tuttavia, sotto il dominio islamico, una munita base navale da cui partivano periodicamente spedizioni che, risalendo l’Adriatico, saccheggiavano le città costiere, arrembavano navi da carico, o si scontravano, vittoriosamente, con la flotta veneziana che, organizzata dall’imperatore Teofilo, tentava di contrastare tali scorrerie. Il successore di Saba, Apolaffar (Abu Gia’far), verso l'840, partendo da Taranto, arrivò nella pianura metapontina, si diresse verso il Bradano e cercò di risalire il fiume, ma fu respinto dai Longobardi del castaldato di Acerenza. Non molto tempo dopo Apolaffar tentò ancora di penetrare all'interno della Basilicata attraverso le valli del fiume Cavone, ma anche quella volta il suo tentativo fallì poiché fu respinto dagli uomini del castaldato di Latiniano, fedeli a Sichenulfo, signore del principato di Salerno. Con questo secondo tentativo andato male, i Saraceni persero anche la loro roccaforte di Anglona e così abbandonarono la pianura metapontina, ritirandosi definitivamente a Taranto. Ma il walì tarantino non si arrese, e ritentò per la terza volta di conquistare l'interno della regione Basilicata. Riconquistò il Metapontino, riprese Anglona e la fortificò, quindi occupò Tursi, per controllare le valli dei fiumi Agri e Sinni. Apolaffar parteggiò alternativamente per Siconolfo o Radelchi, ma questa strategia gli costò la vita. Fu infatti tradito e messo a morte da Radelchi, cui aveva imprudentemente concesso la propria alleanza. Bari e Taranto, intanto, pur dipendendo nominalmente dai principati longobardi di Benevento e Salerno, rimasero in saldo possesso dei Saraceni.


L'unica straordinaria fonte diretta sulle vicende storiche di Taranto nel periodo preso in esame, è la testimonianza del monaco franco Bernardo, che ci illumina sulla drammaticità della situazione subita dalle popolazioni. In viaggio con due confratelli alla volta della Palestina, Bernardo assistette nel porto di Taranto all’imbarco di migliaia di prigionieri beneventani, destinati ad essere venduti come schiavi sui mercati africani e della Siria. Il testo (in latino) si legge in "Early travels in Palestine", ed. T. Wright, Londra 1948, pp. 23-31. La traduzione è di F. Porsia:


Nell'anno dell'incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo 867, vo­lendo nel nome del Signore visitare i Santi luoghi a Gerusalemme, io Ber­nardo, avendo preso per miei compagni due fratelli monaci, uno dei quali era del monastero di San Vincenzo a Benevento e si chiamava Teudemundo, l'altro era Spagnolo e si chiamava Stefano, venimmo a Roma dal papa Nicola e ottenemmo la desiderata licenza di partire con la sua benedizione ed as­sistenza. Di là venimmo al Monte Gargano, dove è la chiesa di San Michele sotto una roccia, coperta dal di sopra da alberi di quercia. [...] Lasciando il monte Gargano viaggiammo per 150 miglia, ad una città in mano ai Saraceni, chiamata Bari che era formalmente soggetta a Benevento. E' posta sul mare ed è fortificata a sud da due grandi muri; a nord sporge alta sul mare.


Qui ottenemmo dal principe della città, chiamato sultano, il necessario equipaggiamento per il viaggio, con due lettere di salvacondotto che descrivevano le nostre persone e l'oggetto del nostro viaggio al prin­cipe di Alessandria e al principe di Babilonia. Questi principi sono sotto la giurisdizione dell'Emir-al-Mumenin, che governa su tutti i Saraceni e risiede a Bagdad e ad Axinarri che sono oltre Gerusalemme. Da Bari andammo al porto della città di Taranto, alla distanza di 90 miglia, dove trovammo sei navi che avevano a bordo 9000 schiavi cristiani di Benevento. In due navi che salpavano per prime e che erano dirette in Africa c'erano 3000 schiavi; nelle due seguenti che erano destinate a Tu­nisi ce ne erano altri 3000. Le ultime due che contenevano parimenti lo stesso numero di schiavi cristiani, ci portarono al porto di Alessandria dopo un viaggio di 30 giorni. Qui ci fu proibito di sbarcare dal capitano dei marinai (che ne ha 60 sotto il suo comando) fino a che non gli demmo 6 aurei per la nostra partenza. Allora andammo dal principe di Alessandria e gli mostrammo le lettere che il sultano ci aveva dato, alle quali, comun­que, egli non mostrò attenzione, ma obbligò ciascuno di noi a pagare 13 soldi, e allora ci diede lettere per il principe di Babilonia. E' costume di questo popolo di prendere in considerazione solo ciò che può essere pe­sato; e 6 dei nostri soldi e 6 denari fanno 3 soldi e 3 denari della loro moneta.


Il nuovo imperatore Ludovico II cercò con ogni mezzo di metter fine alla grave crisi politica e alla conseguente frammentazione del Mezzogiorno. Nell’866, alla fine di un lungo lavoro diplomatico, si mise a capo di una robusta spedizione che puntò alla conquista dell’emirato di Bari. Tuttavia la città adriatica, ben difesa, riuscì a resistere ad un lungo assedio e fu sconfitta solo nel febbraio dell’871. A Ludovico rimase l’effimera illusione di essere riuscito a comporre in un disegno unitario il sempiterno particolarismo del Sud. Ebbe modo di ricredersi immediatamente, visto che ad agosto dello stesso anno fu attaccato nel suo palazzo, a Benevento, dalle forze longobarde guidate Adelchi, duca della città. La prigionia dell'imperatore fu l'amaro risvolto una congiura ordita dai potentati longobardi e dal duca di Napoli. Venne liberato solo dopo aver promesso solennemente che non si sarebbe vendicato. Mentre ad Occidente le fazioni prendevano il sopravvento sugli interessi generali, a Oriente si riaccendeva l’interesse per le opulente province occidentali. A Bisanzio fu il nuovo imperatore Basilio I il Macedone ad organizzare una poderosa spedizione verso la Puglia. Il primo assaggio della nuova strategia fu, nell’876, l’occupazione dello stratega Gregorio di Otranto, che aveva sottratto Bari ai Beneventani. Taranto, intanto, sotto la signoria di Othmàn, continuava a svolgere il suo ruolo di centro nevralgico delle scorrerie saracene, ricca per il commercio di schiavi e quasi completamente islamizzata. Lo scontro decisivo avvenne nell’880. Due eserciti bizantini al comando di Procopio e Leone Apostyppes, mentre la flotta dell’ammiraglio Nasar chiudeva dal mare ogni via di scampo, misero fine al quarantennio di occupazione musulmana e restituirono la città ionica all'ambito politico cristiano, seppure in salsa greco-bizantina. L’occupazione greca di Taranto non risparmiò alla città alcuna violenza: moltissimi abitanti di origine latino-longobarda, ormai di costumi essenzialmente islamici, furono per questo epurati dei propri beni e venduti come schiavi dal generale Apostyppes. Il vuoto demografico fu colmato da circa 3.000 coloni fatti immigrare forzatamente dalla Grecia, in particolare dal Peloponneso, a ripopolare una città ormai avviata verso un inesorabile declino economico e sociale.


Una nuova incursione saracena si ripropose il 15 agosto del 927, allorquando le schiere musulmane guidate dallo slavo Sabir distrussero completamente la città, uccidendo gran parte dei suoi abitanti e deportando gli scampati. Riferisce, nella sua cronaca, Lupo Protospatario: “Anno nongentesimo vicesimo septimo fuit excidium magnum Tarenti patratum et perempti sunt omnes viriliter pugnando: reliqui deportati sunt in Africam et factum est mense augusti in festivitate S. Maria". Come scrive F. Gabrieli nel suo saggio "Taranto araba", soddisferebbe molto la nostra curiosità capire dati ed elementi che mancano nel silenzio delle fonti storiche tra l'840 e l'880. Poco o nulla sappiamo sull'eventuale riconoscimento di Taranto come stato musulmano, alla stregua di Bari, così come ignoriamo l'ubicazione dei luoghi di culto, dal momento che i fedeli islamici dovevano pur adunarvisi in preghiera, o dei rapporti con le popolazioni cristiane, apparentemente buoni, se non sono registrati episodi di ribellione. Insomma, tanti interrogativi ai quali solo recentemente la storiografia sta rispondendo in maniera più compita.


Bibliografia essenziale:F. Gabrieli, Taranto araba, in "Cenacolo", IV (1974), pp. 3-8;

G. Musca, L'emirato di Bari, 847-871, Bari 1967

Porsia-Scionti, Taranto, Roma-Bari 1989