La pesca nei mari di Taranto, attualità delle norme antiche
Nelle foto di Cerruti: selezione di pali di castagno per la mitilicoltura, l'enorme quantità di corde vegetali prodotte, ostricoltori trasportano fascine di lentisco
La pesca nei mari di Taranto, attualità delle norme antiche
di Fabio Caffio
in: "Corriere del Giorno", giovedì 24 dicembre 2009, p. 31
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Storia e cultura del molluschi L'iniziativa della Fondazione Michelagnoli e del Talassografico
La pesca nei mari di Taranto, attualità delle norme antiche
Proponiamo una sintesi dell’intervento tenuto da Fabio Caffio in occasione della presentazione del volume della Fondazione Michelagnoli “Frammenti di Mare: Taranto e l’antica molluschicultura”. Tema della relazione: “La pesca nei mari di Taranto tra storia ed attualità” tema trattato anche nel nuovo volume curato dalla Michelagnoli e dal Talassografico.
La Taranto che nel 1860 cessò di far parte del Regno delle Due Sicilie era una città di circa 20.000 anime che gravitavano in gran parte sulle attività marittime. Gli abitanti vivevano ristretti nell’angusto spazio dell’Isola cinto interamente da mura e fortificazioni. L’accesso al Mar Piccolo, lungo la strada della Marina ( l’odierna via Garibaldi) avveniva attraverso piccole porte che venivano chiuse di notte in quanto era vietata la pesca dalle ore 24 sino al mattino per evitare frodi alla Dogana cui era dovuto parte del pescato. E lì, sulla riva che era stata creata intorno all’anno Mille dai Bizantini rubando spazio al mare con i ruderi degli antichi monumenti magnogreci, erano in secca le barche dei pescatori. Barche di piccole dimensioni, feluche fatte per la pesca in Mar Piccolo o tutt’al più in Mar Grande, in quanto i pescatori tarantini erano dediti ad attività locali: i mari di Taranto erano infatti ricchissimi di ogni genere di pesci e molluschi e non c’era alcun bisogno di spingersi lontano dalla Città. Poi venne la costruzione dell’Arsenale militare, iniziata nel 1883, che trasformò del tutto la riva sud del Mar Piccolo: 40 ettari vennero sottratti al mare e scomparve la Baia di Santa Lucia, sino ad allora accessibile dalla città tramite una strada in discesa posta là dove ora finisce l’odierna via Pitagora vicino al Muraglione dell’Arsenale. Il Mar Piccolo cambiò allora la sua fisionomia ed il suo habitat naturalistico, anche per effetto dello scavo ed allargamento in canale navigabile dell’antico fosso del Castello che lo mise in diretta comunicazione con il mare aperto.
Chi oggi legga i toponimi riportati sulla cartina di G.B. Gagliardo dei mari di Taranto stenta ad individuare la loro attuale collocazione. La Fontanella, spiaggia dove si praticava la pesca con la sciabica, era ove è oggi la stazione torpediniere. Le sciaje, peschiere in cui venivano messe a dimora ostriche e cozze pelose, erano nei pressi dell’attuale banchina sommergibili, mentre Santalucia era l’insenatura sottostante la villa di monsignor Capecelatro nei cui bassi fondali si faceva copiosa raccolta di telline e si prendevano, con un rastrello detto vrancuzza, ricci ed ostriche. Più avanti il Pizzone (in parte rimasto immutato) e poi posti oramai cementificati o difficilmente oggi riconoscibili come Pieschi e Mancanecchia (nel II Seno) ciascuno dei quali era dedicato alla pesca di differenti specie ittiche visto che, come ricorda Wuilleumier, Mar Piccolo era come una “immensa rete” che ne conteneva ben novantatré. Tanta abbondanza veniva però amministrata con oculatezza. Per non privare la popolazione del necessario sostentamento e non ridurre le entrate doganali derivanti dalle gabelle (ammontanti in media ad un terzo del pescato) da epoca remota si era consolidato il principio che andasse tutelato, evitando catture indiscriminate, il ciclo riproduttivo di tutte le specie del Mar Piccolo. In special modo di quelle che in certi periodi dell’anno migravano, passando per l’apertura del Ponte di Napoli (odierno ponte di pietra), verso zone limitrofe del golfo. Si spiega così che varie leggi sulla pesca emanate ai primi dell’Ottocento dalla tanto bistrattata Amministrazione borbonica (che a leggerne le carte di archivio, si dimostra invece molto provvida ed efficiente) contenevano norme del seguente tenore: “Sino a nuova disposizione saranno osservate pe' mari di Taranto gli antichi regolamenti e statuti […] le quali provveggono con determinazioni richieste da circostanze, locali, che non si distrugga il germe de' pesci…”. Le condizioni e le modalità - riaffermate da tali leggi - cui era sottoposta la pesca nei mari di Taranto da parte della popolazione locale erano riportate in un codice del 1463, il cosiddetto Libro Rosso. Esso conteneva l'inventario dei beni demaniali del Principato di Taranto al tempo di Giovanni Antonio Orsini, ultimo principe della città, stabilendo le epoche, le diverse qualità di pesci, i luoghi in cui era consentito pescare e gli strumenti da usare.
Come precisava Cataldantonio Carducci nel commentare le Delizie Tarentine del D’Aquino, “Quelle tali proibizioni hanno le loro ragioni; perché pescandosi in tal tempo, ed in tali ore… si verrebbe a danneggiare la riproduzione e si giungerebbe in seguito, ad estirpare tutto il lucroso genere...” Dopo l’Unità d’Italia emerse il rancore della popolazione contro l’Amministrazione delle Due Sicilie ritenuta responsabile di aver limitato lo sviluppo della Città per esigenze di difesa militare. Vennero così abbattute le mura e, nell’attuale Piazza Fontana, antichi monumenti come la Cittadella, la Torre di Raimondello Orsini e la Fontana di Carlo V. E si fece strada la convinzione che la pesca fosse oramai libera. Questa illusione, sostenuta nel 1863 con dotti argomenti da Cataldo Nitti,durò però poco. Apparve infatti subito chiaro che non era possibile, per non cadere nello sfruttamento indiscriminato, fare a meno delle antiche regole del Libro Rosso, anche perché non vi era, nella legislazione sabauda alcuna norma specificatamente dedicata alla tutela della pesca. Si corse così ai ripari e sia il Sindaco (al tempo Raffaele Lo Jucco) che il Comandante del Porto, sulla base di un parere del Consiglio di Stato, emanarono nel 1874 ordinanze per riaffermare la validità del Libro Rosso come fonte normativa sulla pesca nei mari di Taranto la cui violazione sarebbe stata punita con le pene sancite dal Codice per la Marina Mercantile. A questo fine venne redatta una trascrizione in lingua moderna dello stesso Libro Rosso la quale venne stampata nel 1873 col titolo “Regolamenti contenuti nel Libro Rosso del 1400 sulla pesca dei mari di Taranto ed Istruzioni dette del Codronchi del 1793”. Si realizzò così un’iniziativa lodevole che consegnò alla posterità la memoria di più di duemila anni di vita produttiva del Mar piccolo. L’articolo primo di queste Istruzioni era dedicato, ad esempio, agli “Ordigni proibiti” quali Branconi di ferro per la pesca delle ostriche e cozze pelose, in quanto “radono il fondo del Mare ed estirpano il feto dei pesci. Con l’articolo terzo si vietava la pesca delle ostriche di piccole dimensioni (perché suscettibili di ulteriore ingrossamento) e si stabiliva anche che la “pesca delle ostriche dovesse cominciare dal dì 13 dicembre sino al seguente sabato santo di ciascun anno”, quando le ostriche, divenute grasse e perfette, sono dette “incorallate”. L’articolo quarto concerneva il divieto – per impedire la cattura dei pesci di piccole dimensioni - di impiegare la mappa stretta e cioè un tipo di nassa a maglia fitta, utilizzata per pescare i coccioli (particolarmente abbondanti al di là del Pizzone nella zona di Pieschi ove ora è la Scuola Saram dell’Aeronautica). Mentre l’articolo nono, nel proibire la pesca della faloppa in Mar Grande, permetteva con il marro la raccolta - particolarmente ricca nella zona delle Fontane - delle cozze pelose le quali erano poi riposte ad ingrassarsi ed addolcirsi nelle sciaje del Mar Piccolo. Tutto questo sembrerebbe oramai travolto dalla modernità e relegato nelle pagine di chi ne coltiva nostalgicamente la memoria. Vero. Ma le Istruzioni del Libro Rosso, a leggerle attentamente, sono un testo di straordinaria attualità poiché anticipano i dettami della legislazione italiana sulla pesca ed i principi internazionali sulla pesca responsabile. E poi. Non è ancora Taranto la “capitale morale” (nel senso che lo è di fatto) della produzione dei molluschi in cui sono occupati non meno di un migliaio di lavoratori? E non è la pesca locale impressa nel dna dei Tarantini come testimoniano i numerosi pescatori professionisti e dilettanti che affollano le nostre acque e le banchine del Canale? Dunque: la vocazione di Taranto era ed è ancora sul mare, anche dopo un secolo di industrializzazione “forzata”, segno questo di un connubio inscindibile e di un destino immutabile.