La mafia, problema di tutti

Emanuele Basile, tarantino, ucciso dalla mafia nel 1980

La mafia, problema di tutti

di Gianluca Lovreglio

©Gianluca Lovreglio 1992. Tutti i diritti riservati.

Edizione elettronica (e-text) dell'articolo apparso su “Cultura e Ambiente” del 19-20 novembre 1992.

A volte, quando si parla di mafia, forse perché siamo ormai abituati a sentire questa parola ogni giorno, proviamo un senso di distacco, un moto spontaneo che ci dice che in fondo noi non centriamo, che non sono fatti nostri. che si uccidono tra di loro...

Non è cosi. La mafia è un problema che ci riguarda molto più di quanto noi stessi osiamo credere. Non esiste infatti solo la mafia intesa come grande organizzazione per delinquere di uomini senza scrupoli, ma un fenomeno chiamato “mafiosità diffusa”, ovvero tutta una serie di comportamenti di tutti i giorni atti a far prevalere una persona su un’altra tramite un privilegio o un sopruso.

A chi di noi non è mai capitato di servirsi di una conoscenza, di un parente, un amico per ottenere dei piccoli privilegi?

Approfittare di una conoscenza per esempio per non dover fare lunghe code a degli sportelli, o per far viaggiare più speditamente una pratica. Questo tipo di comportamento è esattamente ciò che si intende per mafiosità diffusa.

Infatti i nostri piccoli comportamenti “mafiosi” di ogni giorno, il malcostume dilagante, costituiscono il terreno fertile nel quale vive e prospera la mafia. A noi non sembra un comportamento “mafioso” quello di chiedere un posto di lavoro ad un politico, magari pagando, o solo in cambio del voto; allora perché crediamo che i “mafiosi” siano solo quelli che ci mostra la TV, quei boss che vivono superprotetti in bunker costruiti con chissà quali soldi? Mafiosi siamo tutti, finché non riusciremo a capire per esempio che se nessuno chiedesse raccomandazioni per un posto di lavoro, esso sarebbe assegnato equamente. E volete dire che tutto ciò non è mafia? È mafia solo “quelli che si sparano tra loro?”.

Riflettiamo. Nella nostra democrazia (!?) ci sono degli organi preposti al controllo dei comportamenti dei cittadini. Ma chi controlla i controllori? Se coloro che ci dovrebbero dare l’esempio (i politici, i magistrati) sono i primi a pretendere tutta una serie di “privilegi”, come e perché i cittadini non dovrebbero fare altrettanto?

Fatte queste debite considerazioni possiamo passare ad esaminare quella “mafia” fatta da chi si spara.

Fino a pochissimo tempo fa infatti i nostri amministratori e i prefetti pugliesi pensavano che la mafia in Puglia non esistesse. Che fosse un fenomeno inventato. Possiamo ancora provare a consultare giornali e riviste di quattro o sei o sette anni fa, e stupirci di vedere dichiarazioni di capi della Polizia o di prefetti che parlano della mafia in Puglia come “piccola”, nascente, instabile. I fatti li hanno clamorosamente smentiti. In realtà ognuno di noi sapeva che quelle dichiarazioni erano fandonie scritte per gettare acqua sul fuoco, ma ce le siamo tenute, ci siamo addirittura sentiti più calmi, più tranquilli: se lo dicono loro...

Poi invece si scopre tutto ad un tratto che la mafia in Puglia esiste, esiste e prospera da molto tempo, e si fa un primo processo alla cosiddetta “Rosa Bianca” del barese, ad opera del magistrato Alberto Maritati, oggi alla DIA (*); poi un altro processo a Lecce per la “Sacra Corona Unita”, ed un secondo sempre alla stessa organizzazione, tuttora in corso, ci hanno definitivamente tolto il prosciutto dagli occhi.

(*) l'articolo si riferisce al 1992. Oggi Maritati è un politico, ex senatore del PD