La masseria Battaglia di Lama e le sue vicende storiche

Sinan Bassà Cicala

La masseria Battaglia di Lama e le sue vicende storiche

di Gianluca Guastella

Ricco ed argomentato articolo dell'archeologo Gianluca Guastella, comparso sulle colonne del quotidiano TarantOggi di lunedì 25 Gennaio 2010, pp. 12-13.

© Tutti i diritti sono riservati all'autore del testo e all'editore Tarantoggi


Storie di “battaglie, nobili e saraceni”

Il cielo era terso in quell’alba del 14 settembre 1594, ma ai tarantini sembrava plumbeo, foriero di grandi sventure, a causa dei riflessi nerastri su Mar Grande di quelle cento e più galere saracene che, all’improvviso, avevano oscurato l’orizzonte. Il fatto, poi, che la flotta navale turca fosse comandata dal rinnegato messinese Sinan Bassà Cicala, il pirata con gli occhiali, massacratore di cristiani, terrore delle coste calabresi e siciliane, faceva prevedere davvero il peggio. I Saraceni sbarcarono alle Cheradi, ed occuparono l’isola maggiore di Santa Pelagia e quella più piccola di Sant’Andrea, entrambe deserte, “albergo fido/di timidi animali”, utilizzate in genere dai pescatori di frodo e dai contrabbandieri. Come prima operazione militare, i Turchi attaccarono le torri costiere di capo San Vito e capo Rondinella. Sbarcarono alla foce del Tara, definito alla maniera petrarchesca “un vago e picciol fiume, / con dolci acque agli occhi chiare e belle”, per provvedersi di acqua e vettovaglie o di legname per riparare le navi. Qui sorgeva una torre di vedetta custodita da pochi uomini, che venne presa d’assalto e incendiata. I custodi Storie di “battaglie, della torre vennero condotti davanti a Cicala che li interrogò per conoscere i “segreti” della città fortificata. Uno di essi descriveva con orgoglio le mura “invincibili, superbe e forti”, le “due castella”, cioè le fortificazioni aragonesi verso porta Lecce e la torre di Raimondello Orsini a porta Napoli, i due ponti che separavano il Mar Piccolo dal Mar Grande, la gran copia di armi e munizioni di cui era fornita e soprattutto l’animo dei cittadini pronti alle armi. Alla fine della sua descrizione il vecchio soldato esclamava, come una sfida: “Or s’espugnar bastate la cittade / itene pur”, quasi a dire: “Se hai il coraggio, fatti avanti!”. Allora il Cicala, “l’empio Trace”, lo “Scita crudel”, in un moto incontenibile di stizza uccideva barbaramente il coraggioso e incitava i suoi ad attaccare la città e a devastare con “furti e prede” il territorio. I pochi soldati spagnoli del presidio non bastavano per difendere l’ampio recinto delle mura. Furono chiamati a raccolta i cittadini che risposero entusiasti all’appello, anche se fecero “a tòr via l’armi” un po’ di confusione. Così scriveva Cataldo Antonio Mannarino, ventiseienne poeta e medico tarantino nel suo “Glorie di guerrieri e d’amanti” , con affettuosa ironia: “Quindi urtava l’un con l’altro, e spesso / quindi l’altro cascava da se stesso”. I Turchi vennero respinti e per ripicca incendiarono e distrussero Santa Maria della Giustizia e il convento suburbano degli Olivetani, i quali preferivano risiedere “intra moenia” nel più comodo monastero di Santa Maria del Porto. I rinforzi richiesti al Preside della Provincia tardavano ad arrivare, anche perché don Carlo d’Avalos, marchese del Vasto, stava raccogliendo più in fretta possibile il suo esercito, formato dai contingenti militari dei vari feudatari della zona, fra cui il duca d’Atri. Finalmente le forze cristiane giunsero in vista della città, accolte con grande giubilo dagli abitanti. Di questa battaglia non si hanno altre notizie, se non nei versi di Mannarino. Che non parla, invece, dell’altra scaramuccia, breve ma cruenta, che si svolse il 22 settembre 1594 in contrada Scardino, alle sorgenti del Tara, tra un contingente turco, inviato a depredare ancora una volta il territorio, e la truppe cristiane guidate dal vescovo di Mottola Iacopo Micheli e dalla baronessa di Massafra Isabella Monsorio, vedova di quel Francesco Pappacoda che era stato tesoriere e intimo di Bona Sforza, duchessa di Bari e regina di Polonia.

Le perdite dei Turchi furono considerevoli e costrinsero l’ammiraglio Cicala a ritirare le sue navi che fecero di nuovo rotta verso l’Albania. Testimone muta e sbigottita di questo scontro, una bellissima masseria fortificata, situata a Lama che da allora prese il nome di “Masseria della Battaglia”. Era questa splendida, insieme ad un’altra, in territorio di Montemesola, della famiglia dei conti tarantini D’Aquino, meglio conosciuta come “Levrano D’Aquino” e dove, a quanto risulta, tre secoli dopo, Tommaso Niccolò D’Aquino, scrisse le sue “Deliciae Tarantine” un poemetto in esametri latini in 4 libri, in cui tesseva un elogio della città di Taranto mediante la descrizione delle sua bellezze naturali e delle attività dell’uomo, quali la pesca e la caccia. L’opera rimase inedita per molto tempo e fu tradotta e pubblicata nel 1771 dall’umanista Cataldantonio Artenisio Carducci, mentre al nostro conte, l’Università tarantina dedicò l’arteria principale della città. Per il viaggiatore che, partendo dal Molise o dalla Campania, scende giù per la Puglia, fino alla punta estrema del tacco dello Stivale, o, a Sud Ovest, fino ai confini con la Basilicata, c’è una sorta di filo d’Arianna a guidarlo: il reticolo delle masserie che, a Nord come a Sud, punteggiano e disegnano il paesaggio rurale.

Costruzioni scarne o maestose, dall’architettura essenziale o complessa, semplice o impreziosita da tipiche soluzioni localistiche, tutte nel bianco abbacinante del tufo calcinato. Questo per dire come le nostre masserie costituiscano un bene culturale preziosissimo, pregne come sono di storia e di cultura. Ma torniamo alle masserie della Battaglia e di Levrano D’Aquino e alla loro rilevanza storico-architettonica. I due manufatti, più tardi, furono acquistati da un’altra famiglia nobile tarantina, quella dei marchesi Bonelli- Beaumont. E questo fino ai giorni nostri, agli anni settanta, per intenderci, allorché l’ultimo dei suoi discendenti, Carlo, passò a miglior vita, lasciando la sua cospicua eredità alla fondazione Nobel , con la specifica prescrizione di impiegare il suo patrimonio per la ricerca sul cancro, indicando nel professore siculo-partenopeo Giulio Tarro il terminale ultimo dell’eredità. Il marchese Bonelli –Beaumont, però, aveva lasciato l’usufrutto dei suoi beni alla moglie, Teresa Berger, una bellissima francese che aveva conosciuto a Parigi, dove i rampolli delle famiglie nobili del nostro Meridione usavano andare a divertirsi, e che, pare, fosse una ballerina del Lidò. A questo punto fa il suo ingresso un avventuriero di grande lignaggio del quale non diciamo il nome, il quale, un bel giorno, si presenta alla vedova, porge le sue condoglianze e dice di essere debitore al defunto di un bel po’ di milioni che il marchese gli aveva prestato, per amicizia, in un momento di difficoltà finanziarie. Poi, stacca un assegno e lo porge alla nobildonna, rinnovandole i sensi del suo cordoglio. La marchesa Berger ne rimane vivamente impressionata, tanto che di lì a poco il nostro diventa un assiduo frequentatore di casa Beaumont, proprio alla Masseria della Battaglia, stupendamente arredata e impreziosita da quadri di autore che il marchese aveva raccolto in giro per il mondo, ma, soprattutto, in Francia. L’amicizia si stringe a tal punto che il nostro avventuriero propone alla vedova di sostenerlo nella sua intenzione di fare un’offerta alla Fondazione Nobel per rilevare l’eredità immediatamente, pagandone il corrispettivo, senza aspettare la sua morte, ma assicurandole che ella, Teresa Berger, sarebbe rimasta lo stesso padrona dei beni mentre era in vita. Accolta la proposta, i due si recano a Stoccolma e, inaspettatamente, la Fondazione Nobel, pur di realizzare subito, accetta l’offerta e, per qualche centinaio di milioni di lire (trecento o poco più), cede tutta l’eredità al nostro, senza neppure darsi pena di farsi fare una stima che avrebbe appurato essere il patrimonio del marchese Carlo di molti miliardi di lire. Da sole le masserie della Battaglia e di Levrano-D’Aquino, tipico esempio di “masserie compatte” che, più che di masserie, si dovrebbe parlare di dimore-palazzo, in quanto, si distinguono da tutti gli altri tipi per la linearità delle loro unità volumetriche e distributive, formate da un fabbricato unico a due piani con i locali e la cappella a pianterreno e con una differenziazione nelle volte dei vani: a botte nei locali di servizio, a crociera nella cappella, a padiglione e a lunetta negli ambienti residenziali, valevano ben oltre quella cifra incassata dalla Fondazione Nobel. In ogni caso, ben prima che la marchesa morisse (nel 1973) i rapporti tra i due si erano gravemente incrinati, con Teresa Berger che non esitò ad accusare il suo ex amico di averle trafugato gran parte delle sue preziosissime tele, con strascichi ed accuse pesanti nelle aule di giustizia. Furti che non furono mai provati, tanto che il nostro intelligentissimo avventuriero, alla dipartita della marchesa, divenne proprietario di un grandissimo patrimonio. E’ anche vero che fu costretto, in seguito, a rispondere ai giudici di “lottizzazione abusiva”, in quanto la vastissima area in prossimità della Masseria della Battaglia in venti anni o poco più, divenne una sterminata colata di cemento, prendendosi anche qualche condanna. Ma forse di una cosa dobbiamo essergli grati: quello di aver preservato e, anzi, sapientemente restaurato la “Masseria della Battaglia”.