Anche Taranto ha avuto il suo Medioevo. L’affascinante caso della vera “Torre Nuova” e delle finte torri centenarie.
Resti della Torre Nova nel 1910
Anche Taranto ha avuto il suo Medioevo. L’affascinante caso della vera “Torre Nuova” e delle finte torri centenarie.
© Gianluca Lovreglio 2009. Diritti d'autore riservati.
Edizione elettronica (e-text) dell'articolo apparso in “La Voce del Popolo. Il giornale di Taranto e provincia”, 11 ottobre 2009, anno 7, numero 20, pp. 20-21.
ATTENZIONE:
Il testo che segue è tutelato dalle norme sul diritto d'autore, in particolare in Italia dalla legge n. 633/1941. L'autore ha autorizzato solo la diffusione gratuita riservandosi il diritto esclusivo ed integrale di utilizzazione economica dell'opera in ogni forma e modo, originale e derivato.
Tuttora ignorato a favore di un più prestigioso e splendente passato magno-greco, il medioevo vissuto dalla nostra città nasconde tuttavia aspetti affascinanti e - a volte - misteriosi, tutti da scoprire. Per illuminare secoli di storia dimenticata, un ottimo angolo di osservazione è lo studio delle fortificazioni della città bimare.
Il nuovo impulso ricevuto in questi anni dalle ricerche sul castello ha contribuito a far compiere un enorme passo in avanti rispetto alle troppe ricostruzioni, alcune delle quali decisamente fantasiose, che gli intellettuali tarantini attivi tra '800 e '900 avevano dato della storia della città. È un dato storiografico ormai acquisito, per esempio, che il primo castello (inteso come struttura fortificata autonoma) a Taranto sia stato opera dei Normanni prima della formazione del regnum meridionale.
La fortezza aragonese è stata dunque riedificata o riadattata nello stesso sito del castello normanno, un luogo che ha conservato, nel corso dell'intera storia tarantina, le caratteristiche strategiche peculiari per la difesa della città. La storia del “castello vecchio” di Taranto è ancora tutta da riscoprire, e conserva il fascino di un periodo, il Rinascimento, che in qualche misura ha visto la città jonica protagonista e scenario di contese e passioni umane.
All’interno di questa cornice, le vicende dei due principi di Taranto, Raimondello e Giovanni Antonio Del Balzo - Orsini, hanno un testimone d'eccezione: proprio il castello che i Normanni edificarono e che gli Svevi e i primi sovrani angioini trascurarono ignorando - per vari motivi - la sua manutenzione.
Il quadro storico era in quel tempo tra i più complessi ed avvincenti: all’inizio del Quattrocento l'unione coniugale tra Maria d'Enghien e Ladislao D'Angiò si rivelerà controproducente sia per la principessa sia per il futuro del principato. Ma in questa sede c'interessa esaminare un altro aspetto della vicenda: il fatto che il matrimonio più famoso della città jonica fu fastosamente celebrato nella cappella situata all'interno del castello normanno, come attesta un manoscritto dell'Archivio Dipartimentale di Marsiglia del 1406 che riproduce il giuramento di fedeltà prestato assieme all'omaggio feudale da Maria d'Enghien, quale principessa di Taranto, al sovrano Luigi II.
Dopo la morte di Ladislao, avvenuta nel 1414, il Principato di Taranto passò prima a Giacomo della Marca, marito della nuova regina Giovanna II, quindi, nel 1420, a Giovanni Antonio Del Balzo-Orsini il quale, dopo aver sposato nel 1417 Anna Colonna, nipote del papa Martino V, riottenne il principato con l'appoggio della madre ed ebbe molta importanza a corte, attirandosi però l'ostilità della regina Giovanna II.
Ma torniamo alle vicende più dei pressi del Galeso. La nostra macchina del tempo è un inventario dei beni posseduti dall'Orsini, definito "più potente del re", databile tra il 1420 e il 1435, a noi pervenuto grazie ad una copia napoletana. Grazie ad esso possiamo tracciare il punto delle fortificazioni della città nel periodo appena antecedente la loro ricostruzione. L'universitas tarantina rivendica al principe inutilmente il proprio dominio su fortificazioni, artiglierie, munizioni da guerra per averle allestite a proprie spese. In realtà si tratta di adempimenti di prestazioni obbligatorie, alle quali la città è tenuta e per le quali è autorizzata ad avvalersi del contributo dei casali e dei baroni del territorio. Grande impulso riceve in questo secolo la costruzione di torri e castelli. Per una volta soltanto nella sua storia, forse, gioca nel destino di Taranto un periodo di pace relativa, oppure il fatto che si ritenesse una città inespugnabile: contro ogni considerazione strategica, nella città ionica sembra non esserci traccia, riguardo alle fortificazioni, di interventi del suo ultimo principe.
Dal passato rinascimentale emerge infine un nuovo protagonista in pietra, in parte ancora misterioso: la Torre Nuova. Un documento - tratto dal quaderno dei conti del razionale e uditore del principe Giovanni Antonio Orsini - conservato presso l'Archivio di Stato di Napoli e datato al 1458, segnala le spese assegnate a tale Letterio de Lavello detto “castellano” della "Turris Nova" e Domenico Abbate di Martina, citato come castellano principale della "Turris de medio nominate domini principis Raymundi". Un bel dilemma da risolvere, dal momento che fino a questo momento le fortezze tarantine risultano essere due, vale a dire, oltre al castello, la torre di Raimondello.
Citata anche come fortino, la Torre Nuova è una delle torri appartenenti alla cinta muraria, situata dalla parte del mar piccolo. Lo storico Speziale, pur non entrando nel merito, la riporta come una fortificazione innalzata dopo il 1480, contemporaneamente alla ricostruzione del castello e delle mura. Con maggiore precisione crediamo si possa affermare che la torre dei documenti del 1458 sia la stessa alla quale si riferisce Speziale.
Non si hanno più notizie documentarie sulla torre nuova fino all’epoca della sua distruzione, ma essa ci appare variamente disegnata in tutte le riproduzioni della città che ci sono pervenute.
Gli anziani tarantini ancora oggi ricordano questa costruzione, che nel dialetto prendeva il nome di “Ternova”, e alcuni sanno anche descriverla approssimativamente. Demolita per ordine di Mussolini nel 1936, in nome di quella cultura del piccone ancor oggi dura a morire, la torre aveva una forma rettangolare, con il lato più lungo rivolto verso la Marina. Le misure dovevano essere all’incirca m 150 in lunghezza e m 50 in larghezza. Negli anni ’30 si presentava come una costruzione a due piani.
Guardando la torre dalla marina, appariva una scala esterna all’edificio, addossata al lato destro, che conduceva agli ambienti superiori; all’altezza della strada si aprivano due entrate per altrettanti locali, mentre solo due finestre, con arco a sesto acuto, si aprivano sul piano superiore, oltre all’ingresso in cima alla scalinata. Guardando dal mare piccolo, al primo piano si aprivano numerose finestre affiancate di forma rettangolare, e gli ingressi di due locali all’altezza della strada. Non erano presenti merli o cannoniere sul tetto, il che fa pensare, dopo aver osservato le riproduzioni pervenuteci, che la costruzione dovesse essere in origine più alta dei 30 metri con i quali si presentava negli anni ’30. L’interno era abbastanza povero, con le coperture voltate a botte o a crociera.
Triste destino, quello della Torre nuova. Sino a qualche anno fa era possibile rintracciarne il disegno delle fondamenta rase al suolo, passeggiando dinanzi alla chiesa di San Giuseppe. La ricostruzione della banchina effettuata con i fondi Urban ha cancellato per sempre persino la memoria di questo monumento. La “Taranto che si rinnova autodistruggendosi” come lamentava Antonio Rizzo dalla “Voce”, ha colpito ancora.
In questa stramba città accade anche, ma solo a chi rispolvera testi di cento e più anni fa, di arrovellarsi intorno a costruzioni fantasiose inventate a bella posta dagli uomini di cultura del passato allo scopo di “nobilitare” la storia della propria provincia, così come era costume in quel tempo.
Di altre torri, di epoche diverse, alcuni studiosi tarantini hanno voluto tramandarci una falsa memoria. “Torri di carta” - si direbbe - che esistono tra pagine di inchiostro ingiallito ma che non hanno mai visto una sola pietra di quelle vere. Una di queste è la fantomatica torre definita la “centenaria”.
Leggiamo lo storico seicentesco Merodio: Taranto era «dalla parte del mar grande [...] assicurata quella dagli insulti dei nemici da cento fortificatissime torri, una delle quali chiamata centenaria, si conservò in piedi sino all'anno 1480, nel quale fu demolita per ordine di Alfonso di Aragona, duca di Calabria, e le pietre di quella adibite per le fortificazioni dell'odierna città» ; insiste il Giovine, palesemente ricalcando: Taranto «in antico era munitissima perché circondata da cento torri, delle quali a tempo suo rimaneva ancora una, detta la centenaria, e con le pietre di questa e delle altre dirute il re Alfonso fortificò la città».
Sia Merodio che Giovine copiano però un passo dell’umanista cinquecentesco Antonio De Ferraris detto il Galateo, che descrivendo la città di Otranto scrive: «La città antica era fortificatissima, si dice che il muro di cinta si congiungesse con cento torri [...]. L’ultima ha conservato il nome di Centenaria fino ai tempi nostri, i blocchi di pietra delle altre, per ordine di Alfonso, figlio di Ferdinando, furono trasportati e utilizzati per restaurare e fortificare la città» .
Merodio, non contento del plagio, giunge a situare la torre a metà circa della cinta muraria che si affaccia sul mar Grande, tra la Cittadella e il Castello, un luogo sicuramente inutile per costruirvi una fortificazione di una qualche importanza. Persa dunque la possibilità di rintracciare i resti della cosiddetta torre “centenaria”, non ci resta che menzionarla tra le invenzioni degli uomini che per primi scrissero la storia della città.