San Cataldo
Note a margine della leggenda agiografica di San Cataldo, patrono di Taranto
di Giuseppe Febbraro*
Uno studio di Giuseppe Febbraro già edito nel 2001 in "preTesti" rubrica del sito www.storiamedivale.net ideato e curato dal prof. Raffaele Licinio.
©2001 Giuseppe Febbraro. Tutti i diritti sono riservati all'autore del testo e all'editore di Storiamedievale.net
«Con un procedimento regressivo, la percezione e l’identificazione di certi prodigi fisiologici, come lo stato di buona conservazione di un cadavere dopo un’inumazione prolungata, bastavano a suscitare, in chi ne era testimone, una reazione di venerazione e la nascita di una fama di santità che poteva dare origine a un vero e proprio culto. Anziché scandalizzarsi davanti a questi santi che non sono mai esistiti, conviene piuttosto ammirare la coerenza di un modello antropologico nel quale il significante non era nettamente distinto dal significato».
Così André Vauchez nel suo più recente lavoro [1]. Il passaggio può costituire un ottimo punto di partenza per queste note a margine della leggenda agiografica di San Cataldo vescovo di Taranto, leggenda molto dibattuta, sulla quale però gli studi migliori risultano ormai datati [2].
Appare ormai assodato che elementi topici delle vitae, delle inventiones e translationes, e delle leggende ad esse correlate diffuse nell’Occidente cristiano nel periodo compreso tra il IX e il XII secolo, coesistono nella letteratura sorreggente questo culto, che può in un certo senso intendersi paradigmatica del genere cui appartiene. Ulteriori approfondimenti occorrerebbero semmai all’indagine storica oltre che a quella puramente filologica.
Se è vero, infatti, che le ricerche degli ultimi decenni – quasi tutte di carattere locale – hanno chiarito incongruenze e incertezze con le quali gli scrittori religiosi di età moderna e contemporanea non avevano mai fatto i conti, a volte addirittura aumentandole, è da riconoscere anche che nessuno ha compiuto ancora il passo in avanti decisivo per comprendere in quale contesto politico, sociale, economico, la leggenda del santo patrono tarantino - così come diffusa e a tutt’oggi accettata - si collocasse all’atto della sua nascita.
È noto infatti che quelle agiografiche sono preziose fonti storiche oltre che letterarie e puramente religiose, e un’indagine che manchi di tale prospettiva risulta fatalmente incompleta [3]. Nessuno scandalo, consiglia dunque Vauchez, di fronte ai santi “che non sono mai esistiti”. E Cataldo è appunto un santo «che non è mai esistito». Di questo culto continua a suscitare invece interesse l’aderenza, sì, ad un modello antropologico, ma soprattutto ad una funzione strumentale altrettanto importante nell’epoca in cui esso è sorto.
Partiamo dalle origini. Il più antico ufficio conosciuto sul santo è il Sermo de inventione corporis Sancti Kataldi, saggio trascritto nel 1174 in un codice del monastero benedettino di San Severino, a Napoli. Studiato per la prima volta dall’Hofmaister [4], rivela che l’inventio del corpo di un santo, definito patrono di Taranto, fu effettuata dal monaco longobardo Atenulfus poco fuori le mura della città, e che le reliquie vi furono da questi immediatamente portate all’interno «per sottrarle ai Normanni» che la stavano assediando, vincendo l’ostilità del vescovo a questa operazione. Inizialmente riposte nella chiesa di San Biagio, le spoglie di quest’uomo evidentemente noto ai tarantini dell’epoca, ma di cui non si hanno altre notizie, furono poi spostate nella Cattedrale fatta costruire appositamente in luogo altro da quella altomedievale di Santa Maria. Se ne ricava che il culto tributato a Cataldo è nato nella Taranto prenormanna, posta politicamente sotto il dominio bizantino ma etnicamente e religiosamente composita.
L’elemento longobardo presente nel Sermo, e la sua datazione, hanno fatto pensare ad alcuni che il corpo rinvenuto potesse a sua volta essere quello di un monaco, forse un Gaidoaldus, o di un vescovo ritenuti santi, presenze protettive delle quali la comunità tarantina aveva evidentemente bisogno in quel momento. Ma non vi è nulla di certo.
Ricordiamo che al termine inventio si possono dare due significati. Uno “tecnico”: per inventio cioè si intende, nel linguaggio degli agiografi a partire dall’alto medioevo, il ritrovamento – casuale o voluto, ma quasi sempre casuale – del corpo (o di parti del corpo) di un uomo ritenuto santo in vita o manifestatosi tale proprio all’atto del rinvenimento, con miracoli e prodigi di vario genere. La seconda interpretazione è più ampia, e ci soccorre qui ancora Vauchez: «L’intervento del santo provoca (nella comunità che ne è interessata, nda) una reazione di esultanza: i debiti vengono cancellati, gli esiliati possono tornare in patria, il ciclo infernale delle vendette si interrompe (…) Sembra che possa aprirsi una fase nuova per la collettività, almeno fino a che essa resterà fedele a colui che ha scelto come suo patrono nel senso pieno del termine»[5].
Ciò vale tanto per il santo vivo, che manifesta la sua potenza ad esempio con un miracolo, che per quello morto, il cui corpo – proprio perché fattosi reliquia – sprigiona ancora di più la potenza che detiene, meglio se invocato e venerato.
Il santo ha dunque da vivo la capacità di ristrutturare una comunità, da morto il compito di proteggerla. E non è detto che il luogo sul quale ha esercitato le proprie virtù in vita sia lo stesso sul quale vigila dopo il dies natalis.
Torniamo a Taranto. La vicenda agiografica di Cataldo proseguirebbe per logica qualche decennio dopo la prima tappa, quella narrata dal Sermo. Secondo l’ufficio accolto, pur con riserva, dai Bollandisti [6] (che non erano a conoscenza del Sermo, la cui scoperta è come detto più recente), l’inventio sarebbe avvenuta nel 1071, a destini politici della città completamente mutati: occupata dai Normanni nel 1063, Taranto è ora sotto il dominio di Goffredo, figlio di Gauffredus di Trani [7], e la diocesi è presieduta dall’arcivescovo, pure normanno, Drogone. Il contenuto della nuova leggenda, che i Bollandisti riprendono da un non meglio identificato Berlingerio, è modellato sul cliché della prima. Ma i ruoli sono cambiati: il rinvenimento del corpo avviene ora casualmente nel cantiere aperto dal prelato normanno per costruire una nuova cattedrale, da una crocetta opistografa annessa si comprende trattarsi di un Cataldo, le spoglie – per evitare ogni contatto con i sacrileghi presenti in città - vengono poste nella chiesa madre (dietro comando del vescovo, che nella prima versione si opponeva alla traslatio).
Il racconto di Berlingerio trae a sua volta probabilmente origine da un corpus riunitosi in un periodo non meglio definito ma di certo non anteriore al sec. XIV [8], corrottosi e dilatatosi al massimo verso il sec. XVI, e rintracciabile nei diversi scritti di età moderna [9]. Esso prende le mosse dall’ipotesi petrina sulla fondazione della Chiesa di Taranto, secondo un cliché diffuso in varie diocesi della penisola [10]: San Pietro, in viaggio da Antiochia verso Roma attorno all’anno 42, si sarebbe fermato in città, trovandola preda del paganesimo. Operati taluni miracoli, guarì dal mutismo un povero ortolano di nome Amasiano, lo indottrinò con lo spirito santo e lo creò primo vescovo della nuova diocesi. La quale ebbe vita regolare per alcuni secoli, sino a ridursi progressivamente, quindi a crollare, sotto i colpi delle ripetute invasioni barbariche.
A questo punto entra in scena Cataldo: nel VI (o VII) secolo, proveniente da un pellegrinaggio in Terrasanta, giunge sulle coste salentine un monaco che subito si distingue con ripetuti miracoli tra le genti del luogo, e si dirige poco dopo a Taranto. Trovandola preda del paganesimo esattamente come era capitato a San Pietro [11], e sulle tracce dell’apostolo rifondandone la Chiesa. L’arrivo di Cataldo sarebbe un segno divino, voluto dall’alto: egli è stato mandato direttamente dal Signore per rievangelizzare la città [12].
Cataldo arriva dall’Irlanda. È un monaco, ha presieduto una diocesi con dignità arcivescovile e, come molti suoi conterranei in età altomedievale, arrivato ad un certo punto della vita ha deciso di completare il proprio percorso spirituale con la visita dei luoghi santi e di Gerusalemme. Poi, una volta lì e desideroso di darsi a vita eremitale, giunge la chiamata di Dio che lo porta a Taranto. Là è venerato dal popolo, muore e viene sepolto in luogo sicuro, e a questo punto il cerchio si chiude e la leggenda torna al punto dal quale era iniziata, con il rinvenimento del corpo nel 1071.
Il racconto, accolto dalla Chiesa tarantina ancora oggi, non ha in realtà fondamenti storici. E’ pur vero che la veridicità, e talvolta l’autenticità, sono come già detto requisiti relativi di una fonte agiografica. Ma ancora nel XX secolo diverse indagini sono state effettuate per accertare i dettagli della narrazione: nel 1913, ad esempio, l’arcivescovo tarantino Giuseppe Cecchini fece redigere a Mons. Giuseppe Blandamura otto quesiti, relativi ad altrettanti punti oscuri, da trasmettere al vescovo di Waterford e Lismore Mons. Sheehan. Il prelato cercava evidentemente riscontri fondanti in almeno alcune parti del corpus leggendario, ma il tentativo si rivelò inutile: nella sua risposta, lo Sheehan ammetteva non soltanto che in Irlanda non era reperibile alcuna notizia su Cataldo, ma che addirittura tutto ciò che se ne sapeva era desunto ex fontibus Italicis [13]. Va segnalato inoltre che tra alcuni degli scrittori di età moderna [14] è circolata per lunghissimo tempo una seconda versione della leggenda, secondo la quale la venuta di Cataldo sarebbe databile al II secolo, più precisamente all’anno 166 [15]. I parametri sono però i medesimi della prima narrazione, completamente ricalcati sulle azioni attribuite a San Pietro, e lo studio della crocetta presumibilmente rinvenuta nel sepolcro del Santo nel 1071, ha ristabilito definitivamente la datazione al VI-VII secolo [16].
I dati di fronte ai quali ci troviamo sono quindi: una leggenda agiografica che non ha effettivi riscontri storici; la rielaborazione di un racconto preesistente, ma con protagonisti differenti; il racconto di una “doppia evangelizzazione” di Taranto; la trasformazione di un uomo di origine incerta (longobardo?) in un personaggio di origine irlandese, del quale si ricostruisce una biografia precisa. Di conseguenza, è da qui che si deve far partire una riflessione sulla sua funzione.
La biografia cataldiana non ha precisi riscontri storici, essi sono al limite solo ipotizzabili [17]. Il dato è tutt’altro che strano: per la sua stessa natura di racconto al limite del naturale e del reale, la leggenda agiografica medievale è di per sé spesso inventata o magari rielaborata su altri copioni. Al limite, è proprio questo il punto più interessante: stabilita le preesistenza di un culto di probabile origine rurale (il Sermo studiato dall’Hofmaister pare condurre indiscutibilmente in questa direzione) e ammesso che la Chiesa romana - allineata sin dall’XI secolo alla monarchia normanna - lo abbia fatto proprio anche con un capovolgimento delle parti originarie, appare evidente la funzione strumentale dell’iniziativa. Il dato della doppia evangelizzazione e quello dell’ipotesi irlandese sui natali del santo danno in qualche maniera conferma di questa tesi.
In entrambe le versioni temporali esaminate prima, Cataldo giunge a Taranto per volere divino, nella città pagana, o meglio dove la Chiesa c’era ma era andata in rovina per colpa di chi ne occupava il territorio (genericamente, i barbari), e dunque si rendeva necessaria una sua rifondazione. La metafora potrebbe essere rivolta contro il dominio bizantino antecedente: si tenga presente che l’occupazione normanna di Taranto è di poco posteriore allo scisma di Michele Cerulario (1054), che la Chiesa romana è in quel momento in fase di riconquista anche “mentale” oltre che politica ed economica del Mezzogiorno continentale ed insulare [18], che questo sforzo di riassestamento è diretto indubbiamente in primis contro i musulmani di Sicilia, ma che immediatamente accanto c’è una lotta antibizantina e insieme antiortodossa nelle regioni meridionali d’Italia. Si consideri inoltre che, se la diocesi tarantina fu nei secoli di dominio greco una tra le più “tranquille” del meridione, ben riuscendo a convivere con una diffusa fedeltà al culto latino, episodi che portano nella direzione detta sono rintracciabili anche prima del secolo XI [19]. A questo si aggiunga l’innalzamento a rango arcivescovile della stessa diocesi proprio all’alba dell’occupazione normanna.
Un quadro, parrebbe, di offensiva generale, più anticostantinopolitana che antibizantina, dettata dalle nuove urgenze politiche più che da una convivenza Diocesi greca-Culto latino che tutto lascia presumere non ancora fattasi impossibile [20]. L’irruzione di un culto che da un lato ne capovolgeva uno anteriore, con i bizantini ancora dominatori, dall’altro creava il concetto della fine di un sistema religioso e dell’apertura di uno nuovo, quello della “vera fede”, della rigenerazione morale (come avveniva in Sicilia nei confronti dei musulmani), sta a testimoniare l’importanza tributata all’aspetto ideologico (religioso) oltre che a quello “delle armi” dai nuovi signori: i Normanni, ma anche la Chiesa riformata. In questo, per giunta, facendo propria la lezione degli stessi bizantini e del loro concetto “sacrale” del potere [21].
Alcuni episodi successivi della storia della leggenda potrebbero confermare queste linee guida: come la profezia antiebraica attribuita a Cataldo a partire dal sec. XV [22] e diffusa in chiave antimonarchica nel Regno di Napoli, ma come anche una certa iconografia: per esempio, il dipinto di Giovanni e Stefano Caramia datato 1675 e visibile all’interno della cattedrale di Taranto, che oltre a testimoniare la volontà – già in età moderna – di fondere in un unico corpus le due versioni temporali della leggenda, potrebbe essere interpretato come un simbolo deciso di potenza della Chiesa romana in anni di controriforma [23].
Quanto alla questione della pretesa origine irlandese di Cataldo, stabilito che essa non ha alcun fondamento storico [24], resterebbe da chiarire per quale motivo abbia avuto una parte così importante nella diffusione del culto. Gli studiosi che più recentemente hanno affrontato il tema, hanno interpretato l’elemento in chiave ideale: poiché l’Irlanda ha rappresentato per secoli l’insula sanctorum per eccellenza, farne la terra di origine di Cataldo serviva probabilmente a dare maggiore consistenza all’ipotesi di santità del corpo le cui reliquie si veneravano. Ipotesi fondata, ma che merita un approfondimento.
Se è vero infatti che in età moderna, l’epoca in cui sono fioriti i principali scritti del corpus agiografico cataldiano, era diffuso il mito dell’Hibernia custode e protettrice delle memorie cristiane dagli attacchi barbarici per tutto il primo medioevo, alcuni studiosi hanno da tempo dato avvio ad un processo di ridimensionamento del fenomeno [25]: si è chiarito ad esempio che quello del missionariato irlandese fu un vero e proprio progetto, preparato ed organizzato all’interno dei monasteri dell’isola, e che l’aspetto religioso del fenomeno agì separatamente da quello eminentemente “culturale”. La tradizione dei monaci irlandesi di formarsi spiritualmente in patria per poi irradiare la propria opera pastorale nel continente e spingersi fino in Terrasanta era intesa come un vero e proprio apostolato. Considerando però i principali passaggi nelle diverse versioni della vita di Cataldo, si notano alcune costanti: tra gli autori anteriori al XVI secolo (su tutti, Pietro Calo da Chioggia), come in quelli moderni, successivi alla versione del De Algeritiis (1555), si dà per certo che Cataldo sarebbe stato monaco, si sarebbe formato nel famoso centro spirituale di Lismore, e successivamente (in seguito, anzi, ad eventi miracolosi) fosse stato creato arcivescovo di una diocesi tanto grande da richiedere un difficile lavoro di amministrazione. Dopodiché avrebbe lasciato l’Irlanda per il suo destino e per quello di Taranto.
Insomma, i dettagli delle gesta del santo in Irlanda sono troppo analoghi a quelli delle opere compiute in riva allo Jonio per essere casuali. Si ha quindi l’impressione che anche questo inserto non sia un semplice elemento aggiuntivo all’immaginario complessivo, ma vada interpretato come organico alla funzione, che si è cercato di chiarire, del corpus.
Concludendo, nell’accettare la lezione proposta nei migliori studi sull’argomento, a partire dall’ipotesi di Carducci (culto rurale - di natura probabilmente orale - di età longobardo-bizantina che subisce un riuso a partire dall’età normanna, esclusione dell’origine irlandese di questo personaggio la cui identificazione più logica propende per un vescovo locale vissuto in età compresa tra i secoli IX e XI [26]), la nuova strada da percorrere per una storia del culto cataldiano (storia di non poca importanza, se si considerano le larghissime ramificazioni geografiche della sua diffusione, qui non analizzate) è quella di renderla parte della storia della città, delle sue istituzioni civili e della sua popolazione oltre che della sua Chiesa, di leggerne il complesso apparato delle fonti come preziosa testimonianza storica oltre che religiosa e ampliare il raggio della sua non facile interpretazione.
Note
*Giuseppe Febbraro (Taranto, 1972) ha studiato all’Università di Bari. Si è laureato in Storia economica e sociale del Medioevo ed ha conseguito nel 1999 il perfezionamento in Storia del Mezzogiorno medievale con una relazione sul ruolo del simbolico e del sacro nella Puglia normanna. Ha collaborato con la cattedra di Storia medievale della Facoltà di Lettere di Bari e preso parte a diversi convegni internazionali e nazionali, beneficiando di alcune borse. Ha frequentato un dottorato in «Storia sociale e religiosa dell'Europa moderna e contemporanea». È stato redattore radiofonico nel circuito di Popolare Network e collabora tuttora con alcune testate. Insegna Lettere nella scuola pubblica e si occupa prevalentemente di economia delle società, storia religiosa e critica dell'ideologia. Nel 2005 è stato tra i fondatori dell’associazione dAi Campi Rossi per la Storia della Resistenza e del movimento contadino.
1 André Vauchez, Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel medioevo, Bologna 2001, p. 30.
2 A tutt’oggi gli studi più esaurienti continuano ad essere quelli di Alberto Carducci, in particolare il saggio La cripta e la leggenda agiografica di San Cataldo, in La cripta della Cattedrale di Taranto, Taranto 1986.
3 Paolo Delogu, che le inserisce tra le fonti scritte per lo studio del Medioevo, afferma: “Tutta questa produzione è spesso a metà strada tra la testimonianza storica e la leggenda, ma deve proprio a questa caratteristica la sua importanza, perché anche quando non fornisce notizie positive sulle biografie dei santi storici, testimonia comunque gli atteggiamenti sociali nei confronti della santità, e dà quindi essenziali informazioni sulla religiosità e la mentalità collettiva, spesso aprendo squarci sulla cultura di ceti sociali che non hanno lasciato tracce in altri tipi di fonte»: Introduzione allo studio della storia medievale, Bologna 1994, p. 106.
4 A. Hofmaister, Der Sermo de inventione Sancti Kataldi. Zur Geschicte Tarents am Ende des 11. Jahr, in «Muenchener Museum», IV (1924), pp. 101-114.
5 Vauchez, Santi, profeti e visionari cit., pag. 27.
6 [1] Historia Inventionis et Translationis Corporis B.Cataldi Auctore Berlingerio Tarantino et forsan aliis, Acta Sanctorum, X, Maii XV, 570–575, Anversa 1680.
6 (…) «Mense aprili mortuus est Gauffredus comes, et Goffridus filius eius cepit Tarentum», Breve Chronicon Northmannicum, in Rerum Italicarum Scriptores, t. V, Milano 1723-1728.
8 Cfr. Carducci, La cripta e la leggenda agiografica cit.
9 Ultimi a riprenderlo senza approcci critici sono stati tra gli altri D.L. De Vincentiis, Storia di Taranto, Taranto 1878; G. Baffi, Ricerche sul fondatore della cattedra episcopale a Taranto, Taranto 1880; A. Tommasini, I santi irlandesi in Italia, Milano 1932.
10 Cfr. F. Lanzoni, Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), Faenza 1927.
11 « (…) ut ad partem Italiae se transferret in civitate quae Tarentum vulgariter nominatur, et incultum olim populum et idolis deditum, per Petrum apostulum et Marcum eius discipulum conversum ad Christianae fidei veritatem, et iterum erroribus pristinis implicatum, reduceret ad chatolicae fidei firmitatem»: Acta Sanctorum, cit., 576 ss.
12 «(…) devote orante apparuit Dominus Jesus Christus et ab eremitico proposito revocavit»: ibidem.
13 C.D. Fonseca, La Chiesa di Taranto dal dominio bizantino all’avvento dei Normanni, in La Chiesa di Taranto. Studi storici in onore di Mons. Guglielmo Motolese, Galatina 1977, pp. 17-20.
14 Ughelli F., Italia Sacra, IX, Venezia 1721; G. Giovine, De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna, in Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, Napoli 1735. È raccolta inoltre in Bibliotheca Hagiographica Latina, 6679, Bruxelles 1898-1899.
15 «Igitur Cataldus iter arripuit, ingressusque Tarentum est anno a partu Virginis sexagesimo sexsto supra centesimum, Aniceto Summo Pontefice et Marco Aurelio Imperatore», Ughelli cit., p. 121.
16 Su questo punto cfr. C. Stornajolo, Crocetta aurea opistografa della Cattedrale di Taranto, in G. Blandamura, Un cimelio del sec. VII esistente nel Duomo di Taranto, Lecce 1917, e lo stesso Carducci, La cripta e la leggenda agiografica cit.
17 La Bibliotheca Sanctorum, ad esempio, accetta l’ipotesi dell’origine irlandese dell’uomo. Ma non riesce a dare spiegazioni sulla presunta dignità arcivescovile. Anche quando si tentano spiegazioni logiche, emergono contraddizioni il più delle volte insanabili. Cfr. I.B. Barsali - G. Carata, San Cataldo, in Bibliotheca Sanctorum, III, c. I, Roma 1963, cc. 950-951.
18 Cfr. da ultimo V. D’Alessandro, Il ruolo economico e sociale della Chiesa in Sicilia dalla rinascita normanna all’età aragonese, in Gli spazi economici della Chiesa nell’occidente mediterraneo (secoli XII -metà XIV), Atti del Sedicesimo Convegno Internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia ed Arte (Pistoia, 16-19 maggio 1997), Pistoia 1999.
19 Nel sec. IX è attestato il fallimento, per intervento diretto di papa Stefano V, del tentativo di insediare un arcivescovo greco in città: cfr. F. Porsia - M. Scionti, Taranto, in Le città nella storia d’Italia, Bari 1989, p. 29 e n. 42. Dei primi anni del sec. XI è l’insediamento di una comunità benedettina in un’abbazia appena fuori dalle mura, segno tangibile della spinta originata da Roma e diretta oltre i confini del Catapanato. Nessuna opposizione particolare, peraltro, pare giungesse dal vescovo del momento, Dionigi: cfr. C.G. Mor, La lotta fra la Chiesa greca e la Chiesa romana in Puglia nel sec. X, in «Archivio Storico Pugliese», 1959, pp. 59-64, e V. Falkenhausen, Taranto in epoca bizantina, in «Studi Medievali», IX (1968), pp. 133-166 e n. 157.
20 Mor, La lotta cit.
21 Come acutamente sottolineava A. Guillou, Longobardi, Bizantini e Normanni nell’Italia meridionale: continuità o frattura?, in Il passaggio dal dominio bizantino allo stato normanno, Atti del Secondo Convegno Internazionale di Studi, a cura di C.D. Fonseca, Taranto 1977, pp. 23-61.
22 G. Tognetti, Le fortune della pretesa profezia di San Cataldo, in «Bollettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», 80 (1968), pp. 273-314.
23 San Cataldo vi è rappresentato al momento del suo ingresso nella città, vestito da arcivescovo (dunque, immediatamente identificabile in uomo di Chiesa), accompagnato da altri santi (Leucio, Barsanofio e forse Donato) facilmente riconoscibili dalle genti di tutto il Salento, colto in un atto miracoloso (la restituzione della vista ad un cieco), e con tutto l’apparato immaginifico del caso: le potenze della natura che si scatenano, il cielo in tumulto, l’antica statua del Dio Sole che crolla, come narrato sia nella leggenda petrina che nella versione più antica di quella stessa cataldiana. Cfr. Porsia - Scionti, Taranto cit. e nota a p. 31.
24 Cfr. per ogni dettaglio ancora Carducci, La cripta e la leggenda agiografica cit.
25 Vale su tutti ancora E. Coccia, La cultura irlandese precarolingia: miracolo o mito?, in «Studi Medievali», serie III, VIII (1967).
26 Per un riassunto breve ma esaustivo di queste ipotesi cfr. anche P. De Luca, La Cattedrale di San Cataldo, Taranto 1997, pp. 67-73.